domenica 24 luglio 2011

Noi, i ragazzi del G8 di Genova

Nel decennale dell'evento che sconvolse l'Italia il racconto di un testimone lauriota di quei giorni terribili. Per comprendere cosa c'è dietro lo slogan "un altro mondo è possibile". E per scoprire che la speranza e la passione di un'intera generazione non si sono infrante nel capoluogo ligure



di AGOSTINO GIORDANO - articolo pubblicato su "Il Prometeo Lucano" - anno 01 n° 29 / 22 luglio 2011



Raccontare l'esperienza vissuta a Genova nel luglio del 2001, a distanza di dieci anni esatti, può sembrare un'operazione inutilmente retorica, indirizzata soltanto a chi è stato partecipe di quelle straordinarie e al contempo tragiche giornate, oppure a chi oggi ha quindici o venti anni e, dalle scuole occupate alle piazze delle varie indignazioni, dai comitati referendari per i beni comuni alle comunità “no-tav” della Val di Susa, vive la politica con radicalità e potrebbe incuriosirsi sentendo parlare di ciò che successe dieci anni fa. Le parole “Genova 2001”, “G8”, “Diaz”, “Bolzaneto”, “Carlo Giuliani”, “Placanica”, etc., in molti casi purtroppo oggi a tanti – specie giovani – non dicono nulla perché dimenticate, in altri casi vivono in una dimensione mitica, scollegate dalla quotidiana attualità.

Queste parole sono evidentemente riconducibili a un preciso evento storico, che è stato unico e irripetibile. In questa sede non voglio fare un racconto esaustivo di quelle giornate, né una cronistoria di tipo giornalistico, ma una narrazione particolare, nel senso che parte dal mio punto di vista e con esso si esaurisce, senza pretese di dimostrare alcunchè... anche perchè, come in tanti altri casi, sono davvero i fatti a parlare chiaro.

Sono arrivato all'appuntamento con Genova 2001 facendo alcuni passaggi intermedi fondamentali: le imponenti e determinate manifestazioni contro il WTO del novembre 1999 a Seattle (Usa), ebbero una tale eco anche in Europa e in Italia, che in tanti ragazzi e giovani ben presto si diffuse la consapevolezza di essere parte di un movimento globale (“movimento dei movimenti”) che metteva al centro la nobile istanza di volere e potere costruire “un altro mondo possibile”, contro la precarietà dell'esistenza e contro le ingiustizie sociali. Gli appuntamenti dei potenti divennero presto l'occasione imperdibile per dimostrare la forza di quel movimento e lo scenario mediatico migliore per far prevalere la voce dei ceti deboli, contro un sistema sordo, attento solo ai profitti di pochi miliardari. Insieme a tanti altri ho preso parte a diversi cosiddetti “contro – vertici” (fra cui quello di Napoli - Stop “Global Forum” - del marzo 2001), cioè quelle manifestazioni che contestavano i vertici dei potenti, gli appuntamenti ufficiali dei capi di stato, dei banchieri, dei finanziari, di coloro che decidevano (e in molti casi ancora decidono), il nostro futuro e il futuro dei nostri figli, muovendo le leve dell'economia mondiale a scapito della pace e della giustizia. La maggior parte delle volte queste manifestazioni, pacifiche e colorate, che accerchiavano le riunioni dei notabili dell'economia e della politica mondiale, sono state bruscamente interrotte dalla repressione delle forze di polizia. A Genova, al summit dei rappresentanti degli 8 Paesi più industrializzati e potenti del Mondo, ci arrivammo quindi consapevoli della possibilità di trovarci difronte ad un muro innalzato per non ascoltare le nostre voci e le nostre istanze. La volontà di non ascoltarci si concretizzava duramente mediante le altissime grate di ferro con le quali fu circondata la cosiddetta “zona-rossa” del centro storico del capoluogo ligure, che ospitava le delegazioni dei potenti. Di sicuro però tanti di noi non si aspettavano quello che poi accadde: una repressione terribile, una violenza inaudita scagliata perlopiù contro manifestanti indifesi e inermi. A Genova ci sono arrivato la sera di mercoledì 18 luglio, con un treno stracolmo di migliaia di manifestanti partito da Bologna. Il giorno dopo, giovedì 19, c'è stata la straordinaria e surreale manifestazione per i diritti dei migranti: bella, grande e colorata, che attraversava una città fantasma, blindatissima, in cui timidamente qualcuno ogni tanto esponeva dai balconi o dalle finestre mutande o lenzuola, per protestare contro l'invito dell'allora Presidente del Consiglio in carica Silvio Berlusconi di non rovinare la vetrina su cui erano puntati gli occhi e i riflettori del mondo.

Ma un mondo nuovo (l'altro mondo possibile) era anche lì a Genova, allo stadio Carlini che ospitava migliaia di giovani, nelle assemblee che si susseguivano e in cui si parlava di beni comuni e di diritti, di solidarietà sociale e di partecipazione. Un mondo nuovo era stato il percorso che ci aveva portato lì, che avevo toccato con mano non solo nella città in cui ho frequentato gli studi universitari e dove vivo (Bologna), ma anche in Basilicata e a Lauria, dove i dibattiti pubblici e i giovani mobilitati attorno alle tematiche esplose e poi soffocate a Genova furono tanti, vivi, appassionati e appassionanti.

Il 20 luglio però le passioni, i sogni e le speranze sembravano davvero essersi infrante contro la brutale e inaudita repressione delle cosiddette forze “dell'ordine”: le piazze tematiche spazzate via, manganelli e lacrimogeni contro le mani nude alzate e tinte di bianco. Ragazzi e ragazze, migranti, precari, portuali, suore, comunisti, cattolici, anarchici, libertari, autonomi: tutti massacrati senza possibilità di appello e senza sfumature, esattamente come il nero dei black bloc utilizzato per criminalizzare tutto e tutti e per inaugurare la sciagurata distinzione tra “buoni” e “cattivi”. La notizia della morte di Carlo Giuliani colpì davvero nel profondo tanti di noi, che per il giorno successivo si aspettavano una manifestazione dimessa e poco partecipata; soprattutto, si avvertiva il pericolo che la paura prevalesse sulla determinazione e sulla volontà di non arrendersi a quella brutalità. Invece il giorno dopo, sabato 21 luglio, fu una sorpresa bellissima scoprire che la partecipazione al corteo conclusivo era altissima (tanto che il numero stimato dei manifestanti è stato di circa centomila). Personalmente è stato il giorno che più mi è rimasto impresso, sia per la straordinaria risposta che quel movimento seppe dare, sia per quello che ho subito. Infatti la brutalità e l'arroganza delle forze di polizia non sembrò minimamente scalfita da ciò che successe il giorno prima e sin da subito le migliaia di militari presenti in assetto di guerra, con manganelli, incessanti e fitti lanci di lacrimogeni (lanciati anche dagli elicotteri e dalle barche ancorate al largo del porto di Genova...), cominciarono a caricare l'immenso corteo che dal lungomare voleva concludersi verso il centro della città. Nel vano tentativo di proseguire il percorso del corteo, come tanti altri compagni dei Giovani Comunisti e del Partito della Rifondazione Comunista con i quali avevo preso parte alla mobilitazione genovese, ad un certo punto siamo stati direttamente puntati e inseguiti da due autoblindo della polizia, che ci hanno costretto a scappare in un piccolo vicolo cieco con il ripetuto rischio di essere travolti o schiacciati contro i muri delle case. Rimasti in una decina, per salvarci dalle manganellate degli agenti scesi rabbiosamente dagli autoblindo, non ci rimase altra scelta che buttarci da una ringhiera di legno che dava su un piccolo giardino. Aiutando prima gli altri a buttarsi di sotto – la maggior parte dei quali era già ferita ed uno in particolare aveva la testa spaccata e sanguinante – mentre per ultimo tentavo di farlo, sono stato tirato dallo zaino - che portavo in spalla - da un poliziotto, che mi ha buttato a terra e ripetutamente preso a calci, manganellato e pesantemente insultato e minacciato di morte: picchiato, insultato, minacciato e manganellato non soltanto da lui, ma da almeno altri due suoi colleghi. Nel momento in cui si sono allontanati da me per pochi secondi, molto probabilmente per aprire il portellone dell'autoblindo da cui erano scesi, probabilmente per arrestarmi, ho avuto la forza e la lucidità di riuscire ad alzarmi e lanciarmi oltre la ringhiera finendo di sotto fra gli altri miei compagni. I poliziotti nel frattempo continuavano a urlare e a minacciarci e, pistole in pugno, ci promettevano di farci fare la stessa fine di Carlo Giuliani. Ad un certo punto ci siamo resi conto che ci eravamo buttati nel giardino di una piccola clinica, la cui responsabile dopo un po' di tempo è uscita. I poliziotti le hanno immediatamente urlato di aprire il cancello del giardino, in modo tale da poter prenderci tutti, ma fortunatamente questa Signora si è opposta con determinazione alla polizia, ribadendo più volte che quella era una proprietà privata e che non avevano nessun motivo di entrare lì. Dopo circa una mezz'ora finalmente i poliziotti hanno deciso di allontanarsi e noi, feriti e malconci, siamo riusciti a metterci in salvo.

L'incubo sembrava finito ma ripartire da Genova per tornare in treno a Bologna non è stato affatto facile: più che le manganellate e i colpi subiti dai poliziotti, pesava maggiormente la situazione complessiva di accerchiamento continuo che subivamo. La stazione ferroviaria circondata da polizia e carabinieri, militari sui binari a provocare di continuo i manifestanti, l'elicottero che girava e rigirava sulle nostre teste puntandoci il faro in faccia: tipiche situazioni che possono precedere un possibile arresto di massa. In contemporanea arrivava, tramite alcuni compagni, la notizia dell'irruzione alla Scuola Diaz da parte della polizia.

Tutte cose che capimmo bene nei giorni successivi, così come le violenze inflitte ai ragazzi e alla ragazze fermati e sequestrati nella Caserma di Bolzaneto.

A distanza ormai di dieci anni alcune responsabilità di dirigenti e funzionari delle forze di polizia sono state individuate dalla magistratura (ad esempio per ciò che è successo alla Diaz e a Bolzaneto); purtroppo però, anche grazie a “facili” archiviazioni e furbeschi depistaggi, nessuno ha veramente pagato per quello che è successo (anzi, alcuni poliziotti responsabili sono stati addirittura premiati!) e molti ancora devono rispondere di tante cose, in primis dell'omicidio di Carlo Giuliani.

Repressione per mettere fine ai sogni, alle passioni e alle speranze.

Tentano di farlo sempre, anche nei giorni scorsi in Val di Susa ci hanno provato: lacrimogeni e manganelli contro chi si oppone alla violenza perpetrata nei confronti del proprio ambiente e del proprio territorio. Ma proprio quando i sogni, le passioni e le speranze sembrano definitivamente abbattute e sconfitte, ecco che avviene “il miracolo”: di colpo le parole d'ordine che urlavamo per le strade di Genova dieci anni fa, tornano prepotentemente d'attualità e, come è avvenuto con i Referendum del 12 e 13 giugno scorso, gli slogan possono tradursi in realtà, dimostrando che un altro mondo è davvero possibile.