martedì 19 giugno 2012

Caos e follia – La Lucania e il suo territorio secondo Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi 

 di Agostino Giordano

Articolo pubblicato su “nuova rivista Letteraria” - semestrale di letteratura sociale n. 5 maggio 2012


 “Non vi fate illusioni, la vostra terra è povera e rimarrà povera” (1). In questo modo il meridionalista Manlio Rossi-Doria, parlando al Teatro Stabile di Potenza l’8 ottobre 1947, prospettava ai lucani il loro futuro, senza mezzi termini e con la lucidità che lo contraddistingueva. Rossi-Doria parlava, infatti, come se avesse già dinanzi agli occhi le immagini dei contadini costretti a lasciare la Basilicata per cercare lavoro altrove: l'esito socialmente disastroso, per questa regione, del futuro “boom” economico del Paese. Quel giorno Rossi Doria tracciò un quadro preciso, dettagliato e allo stesso tempo sintetico del territorio lucano, specificandone la estrema e determinante eterogeneità. Si muoveva fra le coordinate segnate circa quarant’anni prima dall’agronomo Eugenio Azimonti, suo maestro di gioventù (2). Azimonti aveva diviso la Basilicata in quattro principali zone: 1) Lucania Alta (montagna); 2) Lucania Bassa (zona del Mare, identificabile con la Piana di Metaponto, la Valle dell’Ofanto e una parte della Valle del Bradano); 3) Lucania Felice (zona vulcanica del Vulture); 4) Zona Intermedia (cioè quella compresa tra il mare e la montagna, zona caratterizzata dalle argille e dalla coltivazione del grano, dove erano diffuse precarietà e disperazione, in cui non esistevano dinamiche capitaliste, ma a dominare era il cosiddetto “Latifondo contadino”) (3). Bisogna qui precisare che Rossi-Doria divideva il Mezzogiorno agricolo in due principali aree: il Mezzogiorno “nudo” (ad agricoltura estensiva) e il Mezzogiorno “alberato” (ad agricoltura intensiva, fondato sulle attività viticola, olivicola e ortofrutticola). Il Mezzogiorno “nudo” veniva a sua volta suddiviso in due zone: una ad agricoltura estensiva capitalistica (caratterizzata in gran parte da ordinamenti che vedevano la presenza di lavoratori salariati), mentre l'altra ad agricoltura estensiva contadina, in cui cioè i grandi latifondi erano frazionati in piccole unità di coltura che alimentavano la precarietà e la dispersione del lavoro contadino; tale zona veniva definita del “Latifondo Contadino”. Se sommariamente si poteva dividere in quattro principali aree il territorio lucano, in realtà individuare fisicamente le linee di confine fra ciascuna di esse era estremamente difficile, data la complessa disomogeneità del paesaggio agrario della regione. Difatti, quando si parla di Montagna, cioè di Lucania Alta, bisogna tener conto delle differenze che intercorrono tra la montagna del Lagonegrese, quella della Val d’Agri e la montagna potentina, che confermano visibilmente la difformità della montagna lucana nella sua globalità. Considerando le zone di territorio comprese nella cosiddetta Lucania Alta, per quanto riguarda l'economia agricola, all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale, si poteva puntare maggiormente sull'attività del pascolo e meno sulla coltivazione vera e propria, soprattutto a causa della minima disponibilità di terreni produttivi. Ovviamente, non si intravedevano soluzioni omogenee, tanto è vero che per la Val d’Agri, caratterizzata da un clima meno rigido e più mite (con la presenza di fette di terra più ricche e fertili sparse qua e là), si prospettava una trasformazione fondiaria che avrebbe potuto e dovuto includere un’autentica bonifica, per sfruttare al meglio le potenzialità di questo territorio montano diverso dagli altri. Anche per questi motivi Manlio Rossi-Doria parlava di trasformazione “puntiforme” per quanto riguarda la Lucania Alta (4) . La Basilicata è forse la regione d'Italia che meglio di altre incarna la metafora letteraria ideata dallo stesso Rossi-Doria per rappresentare l'ambiente e le risorse naturali, quella de “la polpa e l'osso”, con un’evidente e preponderante, spesso drammatica, presenza dell'osso. Più chiaramente invece si potevano e si possono distinguere la Lucania Felice e la Lucania Bassa, le due aree della regione con le maggiori risorse e potenzialità di sviluppo. Nell’immediato Secondo Dopoguerra la Lucania Felice, cioè il Vulture – Melfese, si presentava come la zona più densamente abitata (con circa 120 – 150 ab. per Kmq, mentre il resto della regione ne contava in media circa 50). In essa il paesaggio agricolo era contraddistinto da vigneti, oliveti e frutteti: qui i terreni si presentavano molto fertili e decisamente adatti a un tipo di coltivazione intensiva. L’oasi vulcanica della regione, dominata dalle dolci colline del Vulture in cui si coltivano ancor oggi le ottime uve dell’Aglianico, faceva sì ben sperare, ma molto c’era ancora da fare, specie sulla strada della cooperazione e dell’inserimento dei prodotti agricoli nel movimento del mercato nazionale. La Lucania Bassa, la cosiddetta zona delle “Marine”, da considerare soprattutto per la Piana di Metaponto, era il luogo in cui per secoli a dominare erano state le paludi e la malaria. Nel 1947 il Metapontino (che sarà completamente liberato dalla piaga della malaria tra il 1948 e il 1949 attraverso un impiego massiccio di DDT) aveva ancora un’agricoltura estensiva scarsamente progredita, contrassegnata dalla soffocante presenza del latifondo. Qui essenziale ed urgente era un’azione dello Stato nella direzione di una riforma, sia per quanto riguardava il regime fondiario, sia per quanto concerneva gli interventi di bonifica: solo così questa zona avrebbe potuto diventare, come infatti sarà, la più ricca di potenzialità e risorse per lo sviluppo economico di tutta la regione. Il discorso cambiava totalmente quando invece si analizzava la cosiddetta Zona Intermedia, da far coincidere sostanzialmente con la superficie compresa tra il mare e la montagna: il Basso Potentino, l’Alto Materano, le Medie Valli dei fiumi Basento, Agri, Sinni e loro affluenti. In questa zona la produzione agricola era frammentata in piccolissime imprese contadine, il lavoro era durissimo perché difficili e aspri i terreni da lavorare e la coltivazione preminente era quella del grano. Dal punto di vista della geomorfologia, bisognava e bisogna fare i conti con territori in prevalenza soggetti a frane e smottamenti, spesso situati su zone sismiche, caratterizzati in molte parti da nudi paesaggi argillosi. Le straordinarie pagine del libro di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli, in cui l’autore descrive le cosiddette “dolomiti lucane” e i particolari luoghi del suo confino nella provincia di Matera, a questo proposito ci descrivono il paesaggio in maniera così intensa e chiara, che soltanto la telecamera di Francesco Rosi e lo sguardo di Gian Maria Volontè hanno potuto restituirci nel 1979 quelle dolorose e meravigliate emozioni. Simili sensazioni le suscita anche la famosa pellicola di Pier Paolo Pasolini Il Vangelo secondo Matteo, film girato prevalentemente a Barile e a Castel Lagopesole (in provincia di Potenza), nonché a Matera, fra i Sassi e non solo. Carlo Levi fu confinato in Basilicata dal regime fascista alla fine del 1935 e vi rimase per tutto l'anno successivo. Per un primo brevissimo periodo fu mandato a Grassano, successivamente ad Aliano (chiamato “Gagliano” dall'autore nel romanzo), sempre nella provincia di Matera. Così descrive il paesaggio visto da Gagliano nelle prime pagine del libro, pubblicato per la prima volta nel 1945 e che racconta proprio l'esperienza del confino: “[...] Amavo salire in cima al paese, alla chiesa battuta dal vento, donde l'occhio spazia in ogni direzione su un orizzonte sterminato, identico in tutto il suo cerchio. Si è come in mezzo a un mare di terra biancastra, monotona e senza alberi: bianchi e lontani i paesi, ciascuno in vetta al suo colle, Irsina, Craco, Montalbano, Salandra, Pisticci, Grottole, Ferrandina, le terre e le grotte dei Briganti, fin laggiù dove c'è forse il mare, e Metaponto e Taranto . [...]” (5). Levi pagina dopo pagina ci regala descrizioni e stati d'animo eccezionali che sembrano intrecciarsi con le osservazioni e le analisi, rigorose e scientifiche, degli economisti agrari che, con il loro linguaggio tecnico, ci rendono un quadro disperato e drammatico della realtà lucana. Manlio Rossi–Doria, in particolare, che amava la terra lucana nonostante anch'egli vi fu confinato durante il fascismo, ne auspicava il riscatto e allo stesso tempo era spietato nelle considerazioni socio-economiche riferite a questa regione. Nel 1947 era pienamente convinto che in questa Zona Intermedia non si potesse neanche parlare di agricoltura, ma semplicemente di “caos e follia”. Qui tutto era da rifare, poiché, secondo le parole dello studioso, “…è assurdo il vivere come lì si vive, è assurdo coltivare il grano come lo si coltiva; è assurdo trattare la terra come la si tratta; è assurdo tutto. Debbo, però, dirvi che è proprio rispetto a queste zone che è più difficile trovare una soluzione, indicare la strada da percorrere. Tanti prima di me se ne sono occupati, ed io continuamente ci vado pensando, ma una soluzione chiara non la so ancora vedere” (6). Il problema evidentemente non era solo la conformazione fisica del territorio, ma anche come l’uomo vi era intervenuto e si rapportava ad esso, cioè con politiche agricole indubbiamente sbagliate e prive di progettualità e sistematicità. Per queste zone intermedie, la soluzione per uscire fuori dal “caos” e dalla “follia” si doveva dunque ricercare nella creazione di medie o grandi imprese cooperative in grado di competere sul mercato e nell’aiutare la piccola impresa contadina esistente a uscire dalla dimensione della sussistenza. A questo punto per rendere meglio l'idea, ritorniamo alle parole di Levi: “[...] Dinanzi a me, verso occidente, dietro le larghe foglie verdi e grigie del fico dell'orto e i tetti delle ultime catapecchie digradanti in pendio, sorgeva il Timbone della Madonna degli Angeli, un monticciuolo di terra tutto incavi e sporgenze, con poca erba rada qua e là nella parte meno dirupata, come un osso di morto, la testa di un femore gigantesco, che portasse ancora attaccati dei brandelli secchi di carne e di pelle. A sinistra del Timbone, per un tratto lunghissimo, fino a laggiù in fondo, verso l'Agri, dove il terreno si spianava in un luogo detto il Pantano, era un seguirsi digradante di monticelli, di buche, di coni di erosione rigati dall'acqua, di grotte naturali, di piagge, fossi, collinette di argilla uniformemente bianca, come se la terra intera fosse morta, e ne fosse rimasto al sole il solo scheletro imbiancato e lavato dalle acque. Dietro questo ossame desolato era nascosto, su una piccola altura sul fiume malarico, Gaglianello, e più lontano si vedeva il greto dell'Agri. Di là dall'Agri, su una prima fila di colline grigie, sorgeva bianco Sant'Arcangelo, il paese di Giulia, e dietro, più azzurre, si levavano altre colline e altre ancora, schierate più indietro, con dei paesi vaghi nella distanza, e più in là ancora i borghi degli albanesi, sulle prime pendici del Pollino, e dei monti di Calabria che chiudevano l'orizzonte” (7). Che la Basilicata abbia una conformazione geomorfologica particolarmente complessa e difficile, d’altra parte, è confermato anche da un saggio di Federico Boenzi dal titolo esemplificativo Lo scenario della fragilità, che mette chiaramente in evidenza la condizione instabile e precaria (con appunto il concetto di fragilità alla base di tutte le conclusioni) della Basilicata dal punto di vista morfostrutturale (8). Dopo aver individuato nella regione due principali complessi strutturali (a ovest la catena appenninica e ad est l'Avanfossa Bradanica), Boenzi procede col distinguere quattro fondamentali aree con caratteristiche omogenee: la montagna appenninica interna, contraddistinta sia dalla massiccia presenza di alti rilievi, sia da depressioni che hanno diverse origini e che per la gran parte sono state sedi di laghi; la montagna appenninica esterna, costituita da difformi pieghe geologiche, in cui troviamo il Monte Vulture (zona vulcanica) nella parte Settentrionale; i rilievi collinari dell'Avanfossa bradanica, caratterizzati da varie dorsali che vanno da Nord-Ovest a Sud-Est, da terrazzi marini che degradano verso il mare e da terrazzi fluviali posti a diverse quote che accompagnano il corso del Fiume Bradano; l'altopiano della Murgia Materana, in pratica l'altopiano calcareo che dalla città di Matera si estende fino alle Murge della confinante Puglia. Tutte e quattro le zone hanno in comune la rapida evoluzione dei loro rilievi (monti, colline, altipiani, dorsali, terrazzi, etc.), provocata dai movimenti delle faglie, che a loro volta si spostano per effetto del moto tettonico. Oltre alla presenza di un elevato tasso di sismicità, l'altra conseguenza derivante dai moti tettonici, ma dovuta anche ai fenomeni climatici (come, ad esempio le intense precipitazioni) è rappresentata dai costanti e diffusi movimenti franosi. Questo e altri importanti studi tecnici, che certo non scarseggiano, fanno dire a Federico Boenzi che “La Basilicata, in effetti è, come ben si sa, una delle regioni italiane più rappresentative quanto a problemi di stabilità di versanti e alle conseguenti difficoltà che da essi scaturiscono per qualsiasi tipo di programmazione” (9). Il Fascismo aveva vincolato la Basilicata alla funzione marginale di “Terra di Confino”, in cui relegare gli oppositori politici e i personaggi scomodi al regime: una condizione di isolamento che aveva spinto la regione a chiudersi sempre di più rispetto al suo esterno. Nel Secondo Dopoguerra invece la Lucania stava pian piano diventando un laboratorio di studi e una fonte di ricerche (spesso era considerata come un paradigma rispetto alla risoluzione dei problemi dell'intero Mezzogiorno) che in un qualche modo le cominciavano a dare dignità e strumenti per rinnovarsi. Due intellettuali come Carlo Levi e Rossi-Doria contribuivano enormemente a indirizzare i lucani sulla strada dell'emancipazione e del risveglio, nella direzione di una generale assunzione di responsabilità. Secondo Bernard Kayser “Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria hanno rivelato all'Italia e al mondo la situazione del Mezzogiorno attraverso quella della Lucania. Essi hanno consegnato a un opinione pubblica locale spesso reticente l'immagine di una realtà che essa non voleva, o non poteva, vedere e conoscere. Essi hanno risvegliato, in una parte delle èlite, e degli intellettuali lucani, un meridionalismo moderno del quale essi ignoravano di essere portatori e che anima ancora la maggior parte di essi” (10) . I problemi del Mezzogiorno d'Italia, oggi sono decisamente cambiati, ma non certamente la conformazione territoriale e il paesaggio, men che meno le condizioni e le sensazioni diffuse di precarietà e insicurezza. Per affrontare tali problematiche, dunque, perché non adottare un approccio decisamente utile come quello di Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi ?

 NOTE:
 (1) Manlio Rossi-Doria, I prossimi dieci anni in Lucania - Discorso tenuto al Teatro Stabile di Potenza l’8 ottobre 1947, in Riforma agraria e azione meridionalista (seconda edizione), Bologna, Edizioni Agricole, 1956, pag. 279; la prima edizione del testo è del 1948.
 (2) Cfr. Eugenio Azimonti, Il Mezzogiorno agrario quale è : relazioni e scritti - raccolti da Giustino Fortunato (Seconda edizione aumentata), Bari, Laterza, 1921; Eugenio Azimonti, La colonizzazione in Basilicata, Roma, Tipografia del senato, 1929. Per quanto riguarda il rapporto di Manlio Rossi-Doria con Azimonti cfr. Manlio Rossi – Doria, La gioia tranquilla del ricordo : memorie 1905-1934, Bologna, Il mulino, 1991.
 (3) Manlio Rossi-Doria, I prossimi dieci anni in Lucania, op. cit. , pag. 280
 (4) Manlio Rossi-Doria, I prossimi dieci anni in Lucania, op. cit., pag. 282
 (5) Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino, Einaudi, 1990 (la prima ed. è del 1945), pag. 5.
 (6) Manlio Rossi- Doria, I prossimi dieci anni in Lucania, op. cit., pag. 284.
 (7) Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, op. cit. Pag. 96
 (8) Cfr. Federico Boenzi, Lo scenario della fragilità, in Lidia Viganoni (a cura di), La Basilicata oltre il Sud, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997.
 (9) Ibidem, pag. 33
 (10) Bernard Kayser, La svolta degli anni Cinquanta: una testimonianza, in Lidia Viganoni (a cura di), La Basilicata oltre il Sud, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, pag. 434.