Napoli,
Roma, Bologna, Milano: quattro esperienze di cultura militante, in
un’intervista a più voci
Che
cento fiori sboccino!
di Agostino Giordano
Articolo
pubblicato su “nuova
rivista letteraria”
- semestrale
di letteratura sociale (edizioni
Alegre), n.7 – maggio 2013
Napoli
– Ex Asilo Filangieri Occupato
L'Ex
Asilo Filangieri è uno spazio occupato nella città di Napoli, che
dal marzo dello scorso anno propone variegate e ricche attività
culturali, attraverso una modalità di gestione autonoma, trasparente
e aperta. Diverse iniziative e un calendario sempre ricco di eventi
lo rendono un luogo vivo, frequentato da artisti, studenti, operatori
e fruitori della sua offerta culturale.
Il vostro collettivo si chiama
La Balena e vi definite lavoratori dello spettacolo e
dell'immateriale. Quali sono le origini di queste scelte?
Il collettivo La Balena nasce in
ragione di una serie di istanze conflittuali legate alla categoria
dei lavoratori dell'arte, dello spettacolo, della cultura,
dell'immateriale, ossia quelle figure professionali che si sono viste
progressivamente erodere tutele, garanzie, reddito, specialmente nel
tempo della crisi capitalistica e della follia dell'austerità
neoliberale. Naturalmente, siamo vicini a tutte le lavoratrici e i
lavoratori che, come noi, subiscono processi di impoverimento e
precarizzazione crescenti.
Al contempo, le istanze conflittuali
del collettivo La Balena si sono mosse contro l'uso clientelare,
dunque sostanzialmente privatistico, dei fondi pubblici in materia di
arte e cultura e dei luoghi deputati alla fruizione e produzione
delle espressioni artistiche, nonché contro la dismissione del
patrimonio pubblico. L'occupazione dell'ex Asilo Filangieri (ex sede
del Forum delle Culture, esempio di spreco di fondi pubblici),
diventato presidio permanente dopo alcuni giorni, nasce dalla
necessità di riaprire i luoghi della cultura e di combatterne
clientelismo e malagestione.
Amiamo pensare che il collettivo La
Balena, nei mesi, si sia gradualmente trasformato in una collettività
più larga, che ha fatto di eterogeneità e apertura le assi portanti
del suo agire quotidiano.
Qual è la proposta culturale
che rivolgete alla città? La cittadinanza che vive sul territorio
che vi circonda sente l'esigenza di uno spazio come il vostro?
L'ex Asilo Filangieri, pur essendo
collocato nel centro antico di Napoli, è stato di fatto sempre
chiuso alla cittadinanza e al quartiere, sede di tanto sconosciuti
quanto rari eventi. Il quartiere, peraltro, pur essendo centrale
ha storicamente sofferto della mancanza di luoghi di fruizione libera
e a prezzi popolari di arte e cultura. Da quando l'ex Asilo, in
seguito all'occupazione iniziale, è stato autogestito da una
comunità che ne ha realmente garantito
l'apertura, il quartiere e il centro hanno trovato uno spazio dove
potere fruire di una programmazione culturale accessibile,
semi-gratuita e libera. La costruzione del teatro, della biblioteca,
i cineforum per i bambini, le rassegne, i laboratori di teatro,
danza, acrobazia, o di fotografia, le mostre, i reading,
i seminari, le conferenze e, infine, una regolare assemblea di
gestione che gode della costante partecipazione dei cittadini della
intera regione, e i tavoli di lavoro sono diventati la grammatica
quotidiana dell'ex Asilo, che
pian piano si sta traducendo anche nella costruzione di un
linguaggio comune con gli abitanti della zona.
Spesso la politica
istituzionale non riesce a relazionarsi con i soggetti, i collettivi
e/o le associazioni che liberano gli spazi, rendendoli vivi e attivi
attraverso pratiche autonome e autogestite. La risposta alla domanda
di socialità, nella maggior parte dei casi, è la repressione senza
mediazione. La città di Napoli è esente da questo modo ottuso e
reazionario di confrontarsi con i soggetti sociali? Dai luoghi comuni
che si sono creati attorno alla figura di De Magistris e della sua
giunta che difende i beni comuni sembrerebbe di sì...
Ovviamente anche la città di
Napoli non è esente di forze reazionarie. Molti politicanti, in
seguito alla pratica d'autogestione diretta da parte dei cittadini
dell'ex Asilo Filangieri si sono visti sottrarre un bacino
clientelare notevole: da qui denunce, intimidazioni, sigilli - poi
rimossi - al teatro. Abbiamo sempre risposto colpo su colpo, forti
dell'appoggio del quartiere e della cittadinanza.
Rispetto alla
questione giunta De Magistris, gli intenti iniziali andavano nella
direzione del sostegno alle comunità in lotta per l'emersione e
difesa dei beni comuni. Ora ci risulta difficile credere che
quegli intenti iniziali siano stati rispettati. Tuttavia,
nel contesto poc'anzi delineato, la creazione a Napoli di
un Assessorato ai
beni comuni e alla democrazia partecipata ci
è parsa un’occasione storica per erodere sovranità alle
istituzioni costituite e redistribuirne ad istituzioni popolari
nascenti. Ci è sembrato naturale, quindi, aprire un confronto
pubblico con questa Giunta sul terreno del riconoscimento della
gestione diretta (e dunque partecipata) dell’ex Asilo Filangieri.
Ciò ha portato, nel maggio 2012, all’approvazione di una delibera
che ha riconosciuto il ruolo sperimentale di una comunità di
riferimento nella gestione dell’ex Asilo.
Dalle pagine di questa rivista
e dalle parole del suo fondatore Stefano Tassinari, più volte è
emersa l'esigenza, per la Politica, di mettere al centro della
propria iniziativa la Cultura. Allo stesso tempo si è rivelato
indispensabile, per il mondo della cultura, assumere come prioritario
l'impegno politico. In sintesi, la politica ha bisogno della cultura
e la cultura, per non essere prevaricata e messa in second'ordine, ha
bisogno della politica. Siete d'accordo?
Crediamo innanzitutto che la
cultura, per quanto riguarda la gestione dei luoghi e delle risorse
attraverso le quali si produce e fruisce arte e spettacolo, debba
essere autonoma dalle classi dirigenti e dalle infiltrazioni
politiche: ci sentiamo distanti tanto da novelli Mecenate quanto da
cortigiani di vario genere. In questi anni la politica ha
controllato
la cultura imponendo uomini vicini ai partiti, perciò fidati, in
posti chiave della direzione artistica napoletana e campana. Non che
alcuni di questi non avessero competenze: rifiutiamo il metodo. Non
esiste una norma prescrittiva che stabilisca il rapporto ultimo tra
cultura e politica (con la maiuscola): crediamo tuttavia che la
cultura viva si
ingaggi quotidianamente nella realtà, anche politica, di un paese.
Crediamo che gli operatori della cultura, dello spettacolo,
dell'immateriale debbano, oggi più che mai (augurandoci
che non sarà necessario ripetere il sacrificio degli intellettuali
napoletani del 1799 mai dimenticato da Benedetto Croce e
Gerardo Marotta) mostrare coraggio civile
per riconquistare, o conquistare dal nulla, le condizioni per poter
continuare a fare cultura, arte e spettacolo in modo libero e
dignitoso. In questo senso assumiamo centrale l'impegno politico, ma
rifiutiamo tentativi di sussunzione da parte di politici.
Roma - Teatro Valle
Occupato
Il Teatro
Valle di Roma, uno storico presidio artistico e culturale risalente
al 1727, è occupato dal giugno 2011. Fortunatamente è una realtà
ormai consolidata, mediaticamente piuttosto conosciuta, che ha
attirato l'attenzione di numerosi e celebri intellettuali, artisti e
operatori culturali. Purtroppo però ha anche ricevuto particolari
attenzioni dagli speculatori e dai cosiddetti “poteri forti”
della capitale, e minacce di sgombero, con il rischio che qualcuno
possa in qualche modo porre fine a questa esperienza. Per far
proseguire le attività e per continuare a mantenere in vita il
teatro, attraverso la pratica della gestione autonoma e aperta, il
collettivo ha pensato di creare a una vera e propria Fondazione con
l'aiuto di personalità note e attente alle dinamiche “partecipative”
e che mettono a valore i “beni comuni” (tra i tanti, Stefano
Rodotà e Ugo Mattei).
Perchè
avete deciso di occupare il Teatro Valle? Qual è il contesto nel
quale avete agito?
Abbiamo
deciso di occupare il “Valle” a seguito di una serie di
avvenimenti molto significativi in quell'anno che era appunto il
2011. Prima di tutto la finanziaria di Tremonti, che per l'ennesima
volta tagliava i fondi pubblici per la cultura e la scuola.
Addirittura c'è stato il rischio che venisse azzerato il Fondo Unico
per lo Spettacolo, ma poi
questa cosa è stata scongiurata, guarda caso, esattamente il giorno
prima che si attuasse uno sciopero di tutte le realtà teatrali,
artistiche e cinematografiche italiane (evento inedito per la storia
italiana). La questione era molto nebulosa per quanto riguarda i
diritti in caso di disoccupazione, per gli attori, i tecnici e i
lavoratori dello spettacolo e ha inciso anche la decisione di voler
chiudere l'Eti (Ente Teatrale Italiano, che aveva anche il Teatro
Valle in gestione). La chiusura dell'ETI, prevista dalla finanziaria
di Tremonti, implicava anche la chiusura del Teatro Valle, o comunque
una forte incertezza sul suo futuro. A noi arrivavano diverse voci
sul probabile destino del teatro, ma non sapevamo nulla di certo. Si
prospettava l'ipotesi della sua chiusura per un anno (per poi dare la
gestione in appalto ai privati, cosi come è avvenuto per il
Quirino...), oppure quella di essere assorbiti dal Teatro di Roma,
anche se per tale ipotesi non sembrava ci fossero i soldi necessari.
Un’altra ipotesi, era quella secondo la quale il sindaco Alemanno
aveva intenzione di affidare il Teatro a Luca Barbareschi... Finché
c'è stato l'ETI, il teatro era sotto la gestione del ministero,
essendo di proprietà del demanio; al momento della dismissione
dell'ente, nell'estate del 2011, la
gestione è passata al Comune di Roma: questa cosa ci smosse in
maniera determinante. Tale passaggio avrebbe
implicato un grosso rischio per le maestranze e le tecniche
lavorative, manuali, teatrali (di uno dei teatri, fra l'altro, più
antichi d'Italia e di Europa), che andrebbero difese come patrimonio
universale dall'Unesco. La dismissione dell'ETI ha comportato che le
persone che lavoravano al Valle da anni (in gran parte tecnici,
portatori di un sapere incredibile) sono passati direttamente ad
allestire mostre - nel migliore dei casi – o addirittura a fare i
custodi dei musei. In pratica una totale mancanza di riconoscimento
del valore dei saperi, propri del loro lavoro. Tutte queste cose ci
hanno portato a reagire in maniera decisa, con un'azione forte di
rottura, che nelle nostre prime intenzioni doveva durare tre giorni,
e che voleva porre proprio la cultura al centro della nostra
mobilitazione. Ormai non aveva più senso cercare il “dialogo”,
gli altri lo avevano definitivamente interrotto. Noi che tenevamo in
vita il teatro, dalla politica avevamo solo voci di corridoio sul
destino del Valle e non conoscevamo quale fosse la realtà effettiva
delle cose. C'è stata quindi una sorta di rigetto collettivo e
abbiamo occupato il Valle senza pensare di aprire una trattativa, ma
semplicemente per mettere una spina del fianco a coloro che con noi
non avevano intenzione di dialogare. Tra l'altro ci fu una
coincidenza incredibile: l’occupazione avvenne il giorno dopo la
vittoria dei sì ai referendum contro la privatizzazione dell'acqua.
Come
mai avete scelto la “fondazione” come strumento per far vivere il
teatro occupato? Quali sono i vostri rapporti con la politica e le
istituzioni?
A tal
proposito conviene ripartire proprio dalla strana coincidenza che si
è verificata. Infatti la vittoria referendaria pose la tematica dei
beni comuni su un livello di massa e ciò ci spinse a invitare verso
i primi di luglio Ugo Mattei, circa una settimana dopo l'occupazione,
a parlarci appunto di beni comuni. Durante l'incontro pubblico,
aperto alla cittadinanza, Mattei ragionò sul fatto di come il Teatro
Valle fosse uno spazio storico bellissimo che, una volta chiuso,
sarebbe presto diventato un luogo morto. Da lì cominciammo a
ipotizzare un percorso di lungo periodo, anche sulle ali
dell'entusiasmo generato dalla partecipazione del pubblico e degli
addetti ai lavori. La vicinanza dell'opinione pubblica è stata
talmente forte e inaspettata, che la nostra si è mostrata subito una
risposta a un bisogno collettivo. Tra l'altro non bisogna dimenticare
che ci trovavamo nel pieno del governo Berlusconi e in quel periodo
lo scenario politico era completamente diverso da quello attuale:
infatti l'esperienza del Teatro Valle rappresentò per tantissimi una
vera e propria boccata di ossigeno. Ciò ci spinse anche a ragionare
sul fatto che non potevamo andare avanti con una simbolica protesta
di breve periodo, ma dovevamo dimostrare che i lavoratori dello
spettacolo e i cittadini attivi protagonisti della nostra esperienza
erano in grado di costruire e proporre qualcosa, prendendosi cura di
un luogo, molto meglio della politica istituzionale che fino ad
allora si era mostrata sorda e incapace. Considerare un bene comune
anche un teatro storico è stato dunque per noi un assunto importante
da cui rilanciare la nostra iniziativa complessiva. Cominciammo
parallelamente anche a ragionare sul fatto che era importante per noi
creare istituzioni che avessero alla base il principio della
partecipazione della cittadinanza, soprattutto dal momento in cui
avevamo deciso di non inseguire inutili tavoli di trattative o
affannose vertenze. Tutto ciò in virtù del fatto che la
cittadinanza quando è consapevole, è perfettamente in grado di
autorganizzarsi. Tra l'altro, da questo punto di vista il Teatro
Valle è diventato presto un laboratorio politico, nel senso più
profondo, antico e greco del termine. Un luogo dove costruire nuove
forme dello stare insieme, al di fuori delle logiche di competizione,
ma di servizio per qualcosa di comune, dove esaltare e non
schiacciare la proprio individualità. Questo stiamo tentando di
sperimentare al Valle, privilegiando la costruzione di un pensiero
collettivo piuttosto che far emergere la propria autorialità. Seppur
utilizzando un termine abusato dal linguaggio di movimento, la
fondazione, dunque, per noi rappresenta proprio una cosiddetta
istituzione dal basso. E' un tentativo di far nascere da un atto
illegale – l'occupazione - una spinta per l'innovazione delle
istituzioni. La fondazione, se si prende come una scatola vuota da
riempire, diventa un mezzo più che un fine e, fra gli altri, può
essere uno strumento per eliminare definitivamente l'ingerenza della
politica e dei partiti dalla gestione dei teatri: perché non ha
alcuna logica il fatto che sia il politico di turno a nominare il
direttore artistico di un teatro. La norma invece dovrebbe essere
quella in vigore nel resto dei Paesi europei, dove un direttore
artistico viene nominato in base al suo progetto e non a seconda dei
suoi contatti politici.
D'altra
parte è importante per noi uscire dalla logica binaria
pubblico/privato, in base alla quale il pubblico è incapace di
gestire i luoghi artistici e culturali, mentre il privato risulta
virtuoso. Sappiamo bene invece che il privato si muove dentro le
logiche capitalistiche del profitto, ma non si può pensare che un
teatro, un bene storico come il Teatro Valle - dove ha debuttato Sei
personaggi in cerca di autore, dove si sono
esibiti Rossini e Mozart - possa sottostare alle logiche del mercato.
Una terza
via c’è, e parte proprio dal ragionare sul bene comune e cioè
sulla possibilità che una comunità di cittadini, di persone che
amano il teatro Valle, che lo proteggono, se ne prendano cura e che
in qualche modo siano il vero motore per la sua gestione. Partendo da
questi presupposti abbiamo creato un comitato nell'estate del 2011,
scritto uno statuto – con l’aiuto di Rodotà e da Mattei – che
è stato pubblicato on line (e reso emendabile per via telematica)
che, nei fatti, contiene ciò che era emerso durante le assemblee
pubbliche. Appena lo statuto sarà definitivamente pronto andremo dal
notaio per formalizzare la domanda per la fondazione. Per quanto
riguarda il capitale sociale, per avere una più diffusa
partecipazione abbiamo deciso che la quota minima d'iscrizione alla
fondazione è di 10 euro, in modo che tutti possano diventarne soci
fondatori. Nel giro di un anno abbiamo raggiunto 5.000 iscritti e
150.000 euro di fondi. Ora manca il passaggio più difficile,
registrare tutto dal notaio e aspettare che la prefettura riconosca
una fondazione nata da un'occupazione. Sarà un passaggio politico
non facile, nel quale dovremo essere capaci di spiegare che quella
per il Teatro Valle, è una battaglia politica in difesa dei beni
comuni.
Spesso
in Italia le direttive che hanno guidato le politiche culturali
(avallate eccessivamente anche a sinistra) hanno privilegiato
percorsi privatizzanti e che puntano a premiare la
“commercializzazione” degli eventi. Più che la qualità, contano
“i biglietti venduti”. Come si fa a scardinare questa
degenerazione?
Innanzitutto
bisogna precisare che la fondazione
è un'istituzione che si muove nell'ambito
del diritto privato, poiché non esiste in Italia una legislazione
sul bene comune. Questo è un altro fronte sul quale noi ci stiamo
muovendo, nel senso che a breve riapriremo proprio al Valle i lavori
della “commissione Rodotà”, che vorremmo rendere itinerante,
sperando che possa attraversare tutti i teatri e i luoghi di cultura
occupati in questi ultimi anni (compresi Macao e l'ex Asilo
Filangieri). L'idea è proprio quella di rimettere in vita una
commissione nata a livello parlamentare durante il governo Prodi, che
aveva anche redatto una legge delega in proposito, che non ha mai
visto la luce. Questa è un'idea che ci ha suggerito lo stesso Rodotà
e che potrebbe far avvicinare due mondi che in precedenza mai si sono
parlati, le lotte che
vivono ed elaborano le pratiche dei beni comuni e gli studiosi e i
giuristi che ne sviluppano una prospettiva normativa,
con l'obiettivo proprio di scardinare le
degenerazioni “commerciali” e le logiche privatizzanti di cui
parlavi. Per noi è fondamentale che si creino delle nuove
concezioni del diritto, che in qualche modo contemplino il bene
comune.
Tra l'altro
la commissione Rodotà farà anche un ragionamento sulle economie,
cioè su come sia possibile portare avanti l'attività di un teatro
nella concretezza della realtà, in quanto non basta definirsi bene
comune. Ad esempio, per quanto riguarda il teatro Valle, siamo
convinti che siano importantissimi i finanziamenti pubblici, perché
viene fornito un servizio per la comunità. Allo stesso tempo però
sono preziose anche le entrate che arrivano dai biglietti venduti,
dai borderò (elemento su cui si fondano i teatri privati), senza che
questo secondo principio prevarichi il primo, altrimenti si finirebbe
per privilegiare sempre i nomi di richiamo rispetto alla qualità. In
più, noi, con la fondazione stiamo pensando a un tipo di azionariato
diffuso, in cui i soci diventino parte attiva in tutti in sensi.
L'obiettivo è quello di
avere tre differenti fonti di entrate economiche: i fondi pubblici, i
borderò e l'azionariato diffuso.
Tra l'altro, ben vengano anche eventuali
sostenitori facoltosi con l'intenzione di finanziare specifici
progetti, un po' come avviene negli Stati Uniti. L'importante è che
il prezzo del biglietto non diventi elemento di esclusione. In tal
senso abbiamo pensato a delle “quote di complicità”, cioè a dei
prezzi per spettacolo “consigliati” (in base alle spese
sostenute, facendo sì che tutti i lavoratori coinvolti vengano
retribuiti, dagli attori ai tecnici), che ognuno possa pagare a
seconda delle proprie possibilità e disponibilità.
E'
difficile mettere insieme e dalla stessa parte della “barricata”
operatori (tecnici, attori, registi, etc...) e fruitori della
cultura? L'esperienza del Teatro Valle sembrerebbe dimostrare che si
può fare...
Assolutamente
sì, anche se è difficile si può fare. E' fondamentale far uscire
il teatro dalla dimensione della marginalità ed è fondamentale far
vivere tutta la comunità che vi gira attorno e se ne prende cura.
Altrimenti il teatro diventa un inutile esercizio intellettuale, come
se ne vedono tanti nel nostro Paese.
Tra l'altro
al Teatro Valle lavoriamo molto sulla commistione dei generi e
cerchiamo di unire il discorso artistico a quello politico.
Muovendoci su queste coordinate, ci piace fare a volte anche degli
accostamenti piuttosto azzardati, ad esempio proporre Gianni Morandi
o Jovanotti e contemporaneamente l'artista tedesco sconosciuto ai più
o Peter Brook. Oppure, ad esempio, ci piace il fatto che all'interno
del teatro, mentre sul palco si tiene un laboratorio di danza a
sipario chiuso, in platea si possa svolgere contemporaneamente
un'assemblea sulla finanza...
La capacità
di tenere insieme gusti e generi differenti, implica che il Teatro
Valle sia attraversato da generazioni e provenienze socio-culturali
diverse e ciò ci aiuta a tenere tutto insieme.
Ci piace
pensare che il nostro teatro, situato nel centro della capitale (di
fianco al Senato), possa idealmente abbracciare tutta la città e da
noi possano sentirsi a casa anche i ragazzi delle periferie. Il
nostro modo di concepire e agire il teatro va proprio nella direzione
di eliminare lo scollamento che spesso c'è tra gli addetti ai lavori
e il pubblico, che spesso rende i teatri luoghi marginali nella vita
di una comunità.
La
vostra esperienza è stata presa come modello da altri collettivi
che, in altre città tentano di replicarlo, adattandolo ovviamente ai
relativi contesti e alle differenti specificità. Pensate si possa
creare una mobilitazione complessiva e diffusa nel nostro Paese che
veda la rivendicazione della cultura come “bene comune”?
Pensando alla gestione delle politiche culturali negli
ultimi venti anni il pessimismo prevale e, guardando alla situazione
complessiva del Paese, è molto difficile che nel futuro immediato la
cultura possa essere intesa come bene comune anche dai non addetti ai
lavori. Considerando invece l'esperienza del Teatro Valle l'ottimismo
ovviamente prevale, anche se è evidente che il lavoro da fare è
ancora tanto e molto duro. Dalla politica la cultura è vista
prevalentemente come un accessorio e non come un valore assoluto, i
politici la ignorano o la utilizzano soltanto per propri fini. Tra
l'altro, al di là di qualche vago accenno, non sembra che alle
ultime elezioni politiche le forze in campo abbiano avanzato proposte
credibili riguardo alla cultura, che spesso viene utilizzata come
specchietto per le allodole al fine di coprire operazioni finanziarie
di dubbia trasparenza (come nel caso della costruzione
del nuovo palazzo del cinema al Lido di Venezia, attraverso la quale
si è realizzata una vera e propria speculazione edilizia con
svendita di patrimonio pubblico). Insomma,
la situazione italiana è sotto gli occhi di tutti: la cultura, che
dovrebbe essere uno dei pilastri dell'economia e della coesione
sociale nazionale, non è certo considerata una priorità. Per far si
che la cultura venga da tutti percepita come bene comune sarà
necessario un impegno enorme; per questo i luoghi come il nostro
devono essere aperti e devono coinvolgere la cittadinanza in maniera
sempre più ampia, per far sì che ognuno possa riscoprire il piacere
e la bellezza dell’arte. Sino ad oggi, in Italia si sono avute
mobilitazioni “a tasselli”, per tematiche o geograficamente
isolate. E’ importante che questi tasselli comunichino tra loro,
che le esperienze si moltiplichino e formino un mosaico completo,
nella speranza di una svolta complessiva che metta la cultura,
finalmente considerata bene comune, al centro dell'iniziativa
politica e sociale del nostro Paese.
Bologna – Bartleby
Bartleby
è una esperienza che a Bologna l’amministrazione comunale e
l’Università più volte hanno contrastato e tentato di mettere a
tacere. Nasce nel marzo del 2009 in uno spazio occupato (presso
locali universitari inutilizzati) che viene più volte sgomberato e
trova una nuova sede (sempre all’interno di locali vuoti
dell’ateneo bolognese) dal marzo del 2010 in via San Petronio
Vecchio. E’ un luogo molto frequentato da studenti, intellettuali,
scrittori e ricercatori di fama anche internazionale, ricco di eventi
e iniziative che però, inspiegabilmente, è mal tollerato dalle
istituzioni. Le immagini dell’ultimo sgombero, con il portone
d’ingresso murato, hanno fatto il giro della rete e sollevato
l’indignazione di tanti.
Il vostro collettivo si chiama
"Bartleby" e già dal nome è evidente la centralità che
date alla cultura nella vostra iniziativa politica. Come mai
“Bartleby” e perché proprio la cultura al centro?
Bartleby è il nome del
protagonista di uno dei più bei racconti di sempre. Un racconto che
si è prestato a molteplici interpretazioni, spesso contrastanti. C'è
chi vi ha letto la storia di una pura sottrazione, di una sconfitta
solitaria. Altri, come noi, pensano che quel “I would prefer not
to” sia il primo passo per il dispiegarsi di una potenza creativa.
Siamo nati sul solco di questa narrazione, convinti che le storie non
siano statiche ma vadano riscritte ogni giorno. Nati in seno al
movimento dell'Onda nel 2009, dall'università abbiamo avviato un
ragionamento radicale di messa in discussione dei meccanismi di
trasmissione del sapere. Questo ci ha portati a incontrare molte
persone: artisti, musicisti del teatro comunale e del conservatorio,
ragazzi dell'accademia, e una città intera. La cultura come campo di
battaglia, in una città con una delle più antiche università del
mondo, ci è sembrata una sfida da raccogliere. Cultura intesa come
azione, e presa di parola, non come orpello, come decorazione o come
spazio neutro. E nemmeno come impresa. Cultura come terreno di
incontro e formazione critica.
Bologna ha una storia complessa
che vive dell’intreccio (fatto di confronti e scontri) tra
cittadini residenti e fuori-sede. Gli studenti sono una componente
fondamentale di questa città, che spesso vive ai margini delle
scelte culturali e politiche che si operano. Come si inserisce la
vostra proposta culturale in questo contesto? I riscontri sono
positivi?
Da sempre Bologna vive scissa in
due città. I residenti da un lato e le decine di migliaia di
studenti fuorisede dall'altro. Spesso i primi vivono alle spalle dei
secondi. Lo studente è mediamente percepito come quello che arriva,
resta qualche anno e se ne va. Durante questo periodo paga affitti
altissimi per case spesso fatiscenti. Consuma e viene salassato da
tasse universitarie sempre più alte. I problemi si hanno quando gli
studenti divengono soggetti attivi e rivendicano i propri spazi
espressivi, i propri tempi. Questo una fetta della città non vuole
accettarlo. E qui si innesca lo scontro. Come esperienza politica ci
siamo sempre posti a cavallo tra università e città, scegliendo un
luogo centrale e vicino alle facoltà proprio per rompere questa
dicotomia. E i risultati si sono visti nel tempo. C'è una parte viva
di questa città, fatta di studenti ma non solo. É chi pretende di
governare Bologna che si ostina a innalzare muri.
Le amministrazioni locali e
l’Università più volte hanno dimostrato, in particolar modo a
Bologna, di non saper accogliere le istanze di socialità. I percorsi
autogestiti di riappropriazione degli spazi, che come nel vostro caso
vengono “restituiti alla città” attraverso una proposta
culturale altamente qualitativa, vengono sgomberati e l’azione
repressiva sembra essere l’unica risposta di cui le Istituzioni
sono capaci. Quali sono secondo voi le modalità più efficaci per
contrastare questa modus
operandi
ottuso e autoreferenziale?
A Bologna si usa l'espressione “tenere botta”, che
indica la capacità di resistere ed assorbire una serie di duri
colpi. La difficoltà maggiore che questi attacchi pongono è la
solitudine: ci si sente stretti in un angolo e si ha l'impressione
che l'unico modo per reagire sia farlo da soli. “Tenere botta” è
l'unica strategia di salvezza in questa epoca di crisi: vuol dire
guardarsi attorno, capire chi sono i tuoi simili, costruire una
risposta con loro e nel frattempo far capire a chiunque che l'attacco
che in un preciso istante viene rivolto a te è in realtà rivolto a
tutti, che lo sgombero di uno spazio autogestito in città va a
braccetto con delle politiche cittadine di centralizzazione del
potere nelle mani di pochi. E ci si può scommettere che questi pochi
hanno il portafoglio gonfio e in continua espansione.
Spesso si parla di crisi della
politica e di fallimento del sistema dei partiti. Al di là di tutto
è evidente il dilagare del cosiddetto “populismo” attraverso
differenti forme. La cultura è uno strumento utile per ridare
credibilità alla politica? Credete che la politica debba dare delle
risposte o per voi è indifferente?
“Cultura” oggi è soprattutto industria culturale, è
spettacolarizzazione, festival giganteschi, operazioni di marketing,
istituzioni parassitarie, università baronale, case editrici che
impongono i propri gusti, grandi librerie che soffocano le piccole.
Questa “cultura” ha il plauso delle istituzioni. Si tratta di una
cultura neutralizzata, che nasconde il fatto che in questi contesti
c'è chi subisce il ricatto della precarietà, chi per arrivare a
fare ciò in cui crede deve ipotecare la propria esistenza, senza
avere la possibilità di decidere. Il fatto che la cultura sia
considerata una merce consente che ci sia una forte disciplina sui
saperi, una disciplina sulla base della quale si stabilisce chi si
salva e chi no. E a decidere non è certo chi sta in basso. Si tratta
di un modello che è parte integrante della crisi che viviamo, ma di
questa analisi non c'è segno, né nei parlamenti vecchi né in
quello nuovo, perché parlare di “cultura” in modo generico fa
comodo a molti, elimina i problemi. La politica istituzionale, quando
se n'è occupata ha sempre fatto danni, seguendo il gioco del
mercato. Una prima risposta potrebbe essere quella di rifiutare
proprio questa logica. Ma facciamo prima a fare la rivoluzione. Il
ché è tutto dire.
Milano
- Macao
Macao,
centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca, ha sede a Milano, in
viale Molise 68. E’ uno spazio artistico e culturale autogestito
che ha attirato l’attenzione di tanti quando, nel maggio dello
scorso anno ha subito un assurdo sgombero, ricevendo al contempo una
fortissima solidarietà. Il collettivo aveva occupato i locali
inutilizzati della Torre Galfa, un edificio di oltre cento metri
d’altezza situato alle spalle del “Pirellone”. La loro
esperienza è molto emblematica di quanto sia importante e sentita
l’esigenza di luoghi pubblici gestiti dai “lavoratori dell’arte”,
agevolmente fruibili dalla cittadinanza.
Da
dove nasce Macao e l’esigenza di creare a Milano uno spazio,
autogestito e autonomo, di operatori artistici e culturali?
Macao
nasce come momento di critica del sistema lavorativo, nell'ambito
dell'arte, della cultura e della ricerca da parte di un gruppo che
per più di un anno ha discusso, teorizzato e praticato sulla
precarietà del lavoro culturale. Quel piccolo gruppo é stato
grimaldello di un meccanismo di coinvolgimento sociale, sfociato in
un movimento partecipativo di dimensioni inaspettate, che nel momento
dell'ingresso in torre Galfa si é trasformato in quello che é ora
Macao, una moltitudine di individui che sperimentano nuove forme di
cittadinanza e produzione culturale/artistica. In una città come
Milano, dove gran parte della produzione culturale é finalizzata al
commercio industriale, si è sentita la necessità di esprimere le
potenzialità creative in un ambito altro, non finalizzato al
capitale, ma alla realizzazione, in un terreno comune, non
controllato da istituzioni, dei progetti da donare alla cittadinanza
attraverso modalità che presuppongono rapporti personali basati sul
rispetto e la condivisione.
C'è
in città una risposta positiva alla vostra proposta culturale?
La
novità di Macao ha trovato risposte positive e propositive da parte
della cittadinanza, la quale, sentendosi chiamata in prima persona a
rimettere in discussione le modalità di gestione degli spazi urbani,
ma anche di poter sperimentare nuovi sistemi di produzione, ha
partecipato, soprattutto durante l'occupazione di Torre Galfa, in
maniera attiva e propositiva. L'immaginario costruito nella "torre"
ha convogliato le energie della parte di cittadinanza "attiva"
che fino ad allora non aveva trovato il modo di investire il proprio
tempo e le proprie energie in qualcosa di genuino in cui poter
credere. Una moltitudine di energie spontaneamente convogliate in un
progetto di costruzione di un "noi" condiviso, attraverso
il lavoro fisico e mentale, é stata la presa di posizione forte da
parte di una città che voleva cambiare.
Milano,
da circa due anni ormai, è amministrata da una giunta considerata
“illuminata” e guidata da Giuliano Pisapia, protagonista di
un’importante mobilitazione civica e politica che, tra le varie
istanze e i diversi propositi, aveva come prioritarie le politiche
per la cultura e il suo sostegno. Giudicate che si stia procedendo
nella giusta direzione? Il vostro rapporto con l’amministrazione
comunale è proficuo oppure inappropriato, come lo sgombero che avete
subito sembrerebbe indicare?
Aspettarsi
un immediato cambiamento radicale di fare politica, in una città
gestita da vent'anni dalle destre sarebbe più che utopistico. La
giunta Pisapia ha provato a capire il processo iniziato in torre
Galfa, cercando di attraversarlo con un intervento dell'allora
neo-sindaco, in quale, anziché inserirsi come parte integrante di
un’assemblea ha creato scompiglio come agente esterno, proponendo
un percorso "legalitario" ai "macachi" di allora,
chiudendo gli occhi davanti all'evidenza che più di tremila persone,
ogni giorno, attraversassero uno spazio occupato, quindi illegale. Il
Comune non è riuscito ad accettare il processo che stava nascendo
come indipendente, e ha cercando di portarlo dentro il proprio
recinto e controllo; anziché limitarsi ad ascoltare le nostre
istanze ha provato a sussumere le nostre energie, come, tra le tante,
la proposta della gestione dell'OCA, sotto la direzione artistica di
Dario Fo è stata. In sostanza è stata ignorata la legittimità di
un gesto quale la riappropriazione di spazi abbandonati.
Il
lavoro della giunta e quello che abbiamo messo in pratica noi, anche
se in entrambi rientra la parola cultura, si muovono su due piani, se
non due universi, completamente distanti. L’intervento
istituzionale poggia le proprie basi su una democrazia di tipo
rappresentativo che non può muoversi più di tanto al di fuori del
seminato e che comunque non è in grado di riformare la gestione
della città in base alle necessità dei cittadini. Alcuni passi
avanti sono stati fatti, ma le nostre richieste, come quelle di altri
spazi autogestiti di Milano, per la loro radicalità e forza
visionaria (non irrazionalità), risultano quasi esclusivamente come
delle sfide alla giunta e dunque difficilmente prese in
considerazione. Il documento di legittimazione della cittadinanza
attiva uscito da Macao a fine luglio 2012, ha come centro quello
della partecipazione diffusa nella gestione degli spazi pubblici,
soprattutto quelli abbandonati, senza dover rientrare in modalità
burocratizzate, ad esempio l’associazione: noi crediamo che i
cittadini debbano attivamente, e senza il tramite delle gerarchie
istituzionali, poter decidere riguardo alla gestione e alla
destinazione degli spazi, al solo fine di veder migliorata la vita
della comunità. La domanda centrale che M^C^O pone alle istituzioni
è: perché il sistema vigente legittima e legalizza la speculazione
e la corruzione e invece definisce illegale la volontà dei cittadini
di autogestire spazi abbandonati nella massima trasparenza?
In
generale, come considerate l’intreccio tra politica e cultura?
Pensate che le forze e le soggettività politiche (collettivi,
associazioni, centri sociali, partiti, etc...) che incrociano i
vostri percorsi conoscano e siano in grado di interpretare le
problematiche legate al mondo della cultura?
Politica
e cultura in questo paese difficilmente vanno a braccetto, come
dimostra l'atteggiamento dei governi che si sono alternati negli
ultimi vent’ anni, nonostante l'evidenza che investire in cultura
porterebbe solo vantaggi al paese, producendo
qualcosa
come il 5% del PIL, tesi sostenuta da il Sole 24 Ore.
(http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-03-27/larte-produce-investire-lusso-064106_PRN.shtml).
In Italia si tende a strumentalizzare l’argomento. Lo svuotamento
del significato e dell'importanza del termine cultura, con balle del
tipo "con la cultura non si mangia", ha fatto sì che le
istanze di movimenti che rivendicano modalità "altre" di
produzione culturale, non riuscissero a venir fuori in maniera forte
e incisiva. Il nostro compito attuale, parallelo al lavoro che
mettiamo in pratica tutti i giorni, è quello di riportare al centro
del discorso, delle soggettività politiche e non solo, l'importanza
di questo tipo di lotte per il nostro paese. Siamo dell'idea che con
la cultura si possa mangiare eccome, e che questa sia motore per
costruire una società più consapevole e dunque salda. Quanti più
cittadini leggono, suonano, dipingono, visitano musei, scrivono,
ascoltano musica, tanto più alta sarà la ricchezza culturale di una
comunità. Siamo altresì convinti che quanti più strumenti
culturali una persona possiede, tanto più difficile sarà il
controllo della sua mente da parte di un qualsiasi tipo di potere.