giovedì 26 giugno 2014

La cruda aderenza della parola al pensiero

L’attualità del messaggio di Don Lorenzo Milani nelle parole di un suo allievo.

di Agostino Giordano

Intervista a Edoardo Martinelli del “Gruppo storico della Lettera a una professoressa” - Centro ricerca e formazione Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana – Vicchio Mugello (FI)

Pubblicata su “nuova rivista letteraria” - semestrale di letteratura sociale, n-8, ottobre 2013.

Nel maggio del 1967 veniva pubblicata
Lettera a una professoressa, un testo scritto collettivamente dai ragazzi della Scuola di Barbiana (una frazione del comune di Vicchio, sull'Appennino toscano in provincia di Firenze) e dal loro priore Don Lorenzo Milani. Don Milani moriva nel giugno di quello stesso anno e, da allora, Barbiana ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per chi difende l'istruzione pubblica, ma soprattutto per chi crede che la scuola non debba essere “fine a se stessa”, ma realmente al servizio degli studenti e per la trasformazione della società. Una scuola di tutti: libera, autonoma, competente e solidale. Come tante cose buone del secolo scorso, Don Milani e la scuola di Barbiana rischiano di finire nel dimenticatoio, o di essere ricordate per gli aspetti che interessano solo ad alcuni, perché funzionali a uno specifico tornaconto. Del pensiero di Don Milani, ad esempio, si son fatte strumentalizzazioni e semplificazioni che ne hanno spesso snaturato il messaggio autentico e originario. La maggior parte di quelli che al giorno d'oggi lo conoscono, tendono più facilmente ad associarlo a quell' “I care”, rispolverato da Walter Veltroni per affrancarsi dal comunismo e per consacrare l’ennesima svolta moderata di quello che rimaneva del Pci (Ds), piuttosto che alle pagine dei suoi testi, di quelle dei suoi studenti o ai suoi efficaci metodi d'insegnamento.
In tempi di sofferenza della scuola pubblica, il pensiero di Don Milani risulta essere inevitabilmente molto attuale. Per tali motivi è stato utile intervistare Edoardo Martinelli del “Gruppo storico della Lettera a una professoressa” - Centro ricerca e formazione Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana – Vicchio Mugello (FI).
Edoardo Martinelli chiarisce subito che “noi abbiamo una posizione che non è di difesa della scuola statale. Noi non crediamo né nel privato né nello stato. Noi crediamo in una scuola autogestita, meglio sarebbe se fosse statale, dove ciò che conta sono i progetti, che dovrebbero essere democratici. Al giorno d'oggi in Italia non abbiamo una scuola democratica.”


Don Milani ha insegnato a Barbiana dal 1954 al 1967, lei è stato un suo allievo?
Io faccio parte del “Gruppo storico della Lettera a una professoressa”, ho vissuto la mia esperienza a Barbiana nella fase delle grandi scritture collettive cioè nel periodo successivo all'incontro tra Don Milani e Mario Lodi (importante pedagogista, nonché scrittore e insegnante, tra i maggiori esponenti del cosiddetto “Movimento di Cooperazione educativa”, nda). Indubbiamente quello è stato il periodo più ricco a livello didattico, in cui Barbiana non era più una comunità di contadini poveri, incapaci o incompetenti, ma una vera e propria comunità pensante. Questo è un aspetto che va messo in luce, perché spesso gli intellettuali legano Barbiana a un contesto di estrema povertà: la cosa è anche vera ma, quando in un contesto povero arriva un buon educatore e quel contesto rimane comunque emarginato e sfruttato, vuol dire che l'educatore non funziona. Invece quando a Barbiana è arrivato Don Milani la sua scuola si è subito legata a quel contesto di realtà e non era certo una scuola che viveva “fine a se stessa”, come quella dello Stato, astratta, classista e elitaria come abbiamo denunciato proprio nella Lettera a una professoressa. Barbiana è associabile al luogo in cui si prende coscienza del proprio stato e si reagisce! Uno dei pilastri della pedagogia di Don Milani risiede proprio qui: la scuola deve essere inserita nella realtà quotidiana e legata alla concretezza della vita. Purtroppo la scuola di oggi è ancora troppo nozionistica ed è incapace di proporre agli studenti un vero e proprio progetto di vita. L’idea di scuola di Don Milani realizzata a Barbiana, si sviluppa nella piena maturità del Maestro, in seguito anche a diverse esperienze da lui vissute in precedenza a San Donato di Calenzano nell'ambito della formazione e dell'educazione degli adulti.



Chi vuol capire cosa è stata la Scuola di Don Milani, deve andare a Barbiana?
Non è che andando a vedere i musei si capisce cosa è stata la Scuola di Barbiana. Bisogna andare in tutte quelle scuole, come ad esempio l'Istituto comprensivo “Gandhi” di Prato, dove si lavora in apprendimento cooperativo. Oppure a Caivano, nella periferia di Napoli, alla “don Milani”, dove da tanti anni alcune insegnanti operano applicando la stessa sensibilità del Priore. In questo tipo di realtà, a volte riescono addirittura a interpretare il pensiero e gli insegnamenti di Don Milani, meglio di chi ha vissuto direttamente l'esperienza della Scuola di Barbiana. La scuola è una cosa dinamica che non si può certo relegare ai muri, alla montagna e ai contesti. Tutto ciò può emozionare e va bene, però non bisogna cadere nell'errore di molti intellettuali - e fra questi c'è anche Padre Balducci, che nonostante ciò per me rimane un mito - che legano Barbiana a un contesto di povertà: se si commette questo errore non si è capito niente della Scuola di Barbiana. Barbiana è anche il contesto di estrema povertà, ma è il contesto nel quale il povero, apprendendo – cioè attraverso la conoscenza e la cultura – prende coscienza. Questa è Barbiana: la presa di coscienza.


Don Milani puntava il dito contro una scuola dell’obbligo che bocciava tanti studenti (in particolar modo quelli poveri) e che non era in grado di risolvere il dramma, caratterizzato allora da grandi numeri, della dispersione scolastica. Le cose sono cambiate ma, al giorno d'oggi la scuola sembra essere ancora “classista” e a rimetterci, oggi come allora, sono in maniera prevalente le studentesse e gli studenti che provengono dai cosiddetti “ceti deboli” della nostra società, mentre, i “ricchi”, in qualche modo, sembrano comunque cavarsela. Quella di oggi sembra una scuola fatta per il mercato, in cui non è difficile constatare che le politiche neoliberiste affossano anno dopo anno il diritto allo studio. Insomma, guardando alla realtà odierna e all'attualità, secondo lei, le istanze e le denunce poste attraverso la Lettera a una professoressa sono rimaste inevase? Sono le stesse?
Sul fatto che il metodo e le pratiche della Scuola di Barbiana siano attuali e applicabili ancor oggi, non ci sono dubbi. E' altrettanto vero però che Barbiana è stata fortemente mistificata: cioè del suo messaggio si sono considerati di più gli aspetti ideologici e meno gli aspetti metodologici, didattici e pedagogici. Si è analizzata poco la quotidianità di un maestro che, inserito in uno specifico contesto, lo trasforma attraverso una scuola progettuale del territorio: questo è il miracolo di Barbiana. A Barbiana non c'era la strada, la scuola ha progettato la strada; a Barbiana non c'era l'acqua, la scuola ha progettato il modo per far arrivare l'acqua; gli studenti, essendo in una dimensione scolastica dinamica, avevano l'esigenza di vivere un'esperienza all'estero e non c'erano le possibilità per farlo, la scuola allora ha progettato e realizzato le vacanze all'estero per gli studenti. Questa è la scuola dell'autonomia e del territorio. Diciamo la verità: ai tempi in cui era ministro Berlinguer, nonostante i limiti della sua riforma - e io stesso lo contestavo - si rifletteva ancora nell'ottica della didattica attiva e dei metodi della Scuola di Barbiana. Dopo Berlinguer, fatto fuori dai sindacati, la scuola ha avuto un declino enorme. A mio giudizio, il problema dello stato italiano e della scuola è che abbiamo un sindacato che non è più capace di fare una politica salariale unitaria. Tutto ciò crea i presupposti per le discriminazioni e per la selezione di classe. La scuola dovrebbe porsi oggi una questione fondamentale: il rischio a cui si va incontro è che le nuove generazioni, i giovani, combatteranno contro le vecchie generazioni. Noi, i giovani della Scuola di Barbiana, avevamo una complicità con le vecchie generazioni per affrontare la vita, oggi no.
Insomma qualche decennio fa i contorni “di classe” erano più definiti, oggi sembra che siano più definiti i contorni “generazionali”...
Si rischia davvero un pericoloso scontro generazionale e tutto ciò non si può sottovalutare. Oggi la società è basata sui privilegi del “vecchio” e non sulla tutela di chi è giovane e socialmente debole. Gli sfruttati e gli sfruttatori esistono ancora, però ciò che bisogna individuare bene e capire sono i meccanismi dello sfruttamento oggi, che sono decisamente cambiati. Oggi l'elemento più aggressivo della società è lo stato. Come avrebbe detto Watzlawick - e su ciò avrebbe concordato anche Don Milani - dal momento che gran parte dei politici sono corrotti e incapaci di avere ideali, se un giovane non avrà imparato il linguaggio dei politici non farà carriera. Questo è il “filtro di Watzlawick”. Negli anni sessanta, infatti, secondo me in Italia un intellettuale simile a Don Milani, quello che come pensiero gli si avvicinava maggiormente, era senza dubbio Pasolini. Due profeti.



Rileggendo le pagine di Lettera a una professoressa, fra le tante cose, c'è questo passaggio che mi ha particolarmente colpito e che mi ha dato la sensazione di essere ancora molto attuale, anche se i problemi della scuola oggi sono differenti: “[...] Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare. Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null'altro. Dietro a quei fogli di carta c'è solo l'interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno di voi lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello. Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere già arrivisti a 12 anni. A 12 anni gli arrivisti son pochi. Tant'è vero che la maggioranza dei vostri ragazzi odia la scuola. Il vostro invito volgare non meritava altra risposta”.(1) Individualismo esasperato, competitività, abbrutimento dei legami sociali e perdita di valori quali la solidarietà e la cooperazione sono elementi ormai fondanti della moderna società occidentale, che in Italia sono particolarmente accentuati e che pervadono in maniera totalizzante la quotidianità, a partire dalle aule scolastiche di ogni ordine e grado. E' d'accordo?
La scuola di ieri era oligarchica e settaria, la scuola di oggi è comunque di massa. Infatti oggi gli insegnanti, gli operatori sociali, gli operatori sanitari e i sindacati sono corresponsabili della situazione complessiva in cui la scuola si trova. Non siamo più nella fase del Dopoguerra, periodo in cui lo scontro di classe aveva requisiti di tipo diverso. Oggi stiamo uscendo da una fase in cui in l'Italia c'è stata una forte socialdemocrazia con uno spiccato interesse per lo stato sociale; quindi l'elemento che distrugge la scuola non è la contrapposizione tra buoni e cattivi, la scuola sta implodendo perché non si hanno più le risorse e le competenze per farla vivere. Non dobbiamo individuare uno scontro di classe, ma invece riconoscere che viviamo in una società che non produce più cultura. Io oggi addirittura rimpiango anche i “Pierini” (i ragazzi delle famiglie ricche, così chiamati nelle pagine di Lettera a una professoressa, nda)! Prima almeno i ricchi avevano le competenze e le capacità di costruire industrie e avviare attività, realizzavano contesti in cui dopo bisognava comunque lottare per far prevalere le istanze di giustizia e libertà, però c'era intelligenza. Oggi non è più così.


Quindi, come vede il futuro della scuola italiana?
Lo vedo molto nero. Se penso che nel 2013 si costringono decine di ragazzi a far lezioni in pochi metri quadrati di spazio, significa che non c'è già più la scuola, ma batterie per i polli d'allevamento. Faccio un altro esempio, molto provocatorio: in Italia si spendono, in media, 6.400 euro per studente all'anno. Perché non ripristinare i tutor in un contesto di scuola pubblica, abolendo però la scuola di stato? Perché non affidare soltanto tre studenti a un insegnate, che farebbe loro da “tutor” praticando una metodo didattico di tipo dinamico, attraverso biblioteche e quant'altro? Utilizzando quei 6.400 euro all'anno, dopo aver moltiplicato questa cifra per tre, si arriverebbe a pagare più di mille euro al mese l'insegnante. Molti insegnanti precari nemmeno lo guadagnano uno stipendio di mille euro per tutti i mesi dell'anno solare. Il problema è scardinare quel meccanismo perverso che è stato inventato facendo finta di dimostrare che la scuola è un contenitore efficiente. Nei fatti non è così. Quel contenitore però contribuisce ad ammazzare il nostro Paese. L'ex ministro dell'Istruzione Tullio De Mauro, che avrà commesso diversi errori ma è comunque una persona intelligente che produce delle ottime analisi, ci dice che al giorno d'oggi il 70% degli italiani non sarebbe in grado di capire l'articolo di fondo di un giornale. Lui utilizza in realtà un'altra espressione: “gli italiani al 70% non sono più in grado di capire un testo complesso”. Rileggendo Lettera a una professoressa, tra le righe si intuisce molto bene quale era la verifica che Don Lorenzo proponeva ai suoi studenti. Lui sostanzialmente diceva: “quello che io pretendo dai ragazzi al termine della mia scuola è che sappiano leggere, comprendere e discutere l'articolo di fondo di un giornale”. Questo era l'esame di Barbiana. Tutto il contrario di ciò che ha prodotto la società neoliberista. Non si può però piangere sul latte versato. Ora ci vorrebbero delle riforme talmente radicali che in tanti dovrebbero avere la forza e la capacità di rinunciare a tutta una serie di privilegi. Nella scuola così come è ridotta oggi le “buone pratiche” non si potranno mai attuare. La scuola statale odierna prima è stata fatta implodere, come del resto tutti gli elementi fondanti dello stato sociale, poi pian piano smantellata svendendola ai privati. Ma allo stesso modo è stato fatto con le ferrovie e i trasporti pubblici, le poste e quant'altro.


Quindi secondo lei non basta mobilitarsi affinché siano destinati più fondi e risorse alla scuola pubblica?
Secondo me ci sono diverse famiglie che, al di là di tutte le mobilitazioni che sono giuste e importanti, stanno agendo però in modo davvero rivoluzionario, forte e chiaro: cioè stanno creando scuole autogestite. Le chiamano “scuole familiari” perché altrimenti la legge non consentirebbe loro di ottenere contributi. Queste sono le scuole vicine al mondo di Barbiana. Sono scuole in cui viene offerto un servizio pubblico, però non sono statali. Questa è Barbiana: scuola pubblica che però non è succube di uno stato autoritario, che sa fare solo i conti in tasca ai cittadini, senza dargli diritti e valori. Bisogna tornare a parlare e riflettere in termini di autonomia, così come si faceva ai tempi del ministro Berlinguer, che però molti di noi contestavano proprio perché alla fine si intendeva l'autonomia soltanto in funzione imprenditoriale. Invece l'autonomia deve essere di idee, di contesti, di territori, di situazioni, etc. Nell'ambito della “Riforma Berlinguer” c'era una base di riflessione che avrebbe potuto portare alle “buone pratiche”, ma da Berlinguer in poi il declino è stato continuo: ci sono stati tagli che hanno ridimensionato notevolmente le spese, si sono chiuse le piccole scuole. Insomma, le metodologie di insegnamento della Scuola di Barbiana nell'attuale contenitore disastrato e folle che è la scuola di stato italiana, non sono assolutamente praticabili.


In sintesi, per gli ex allievi di Don Milani, come dovrebbe essere la scuola oggi?
Sintetizzando con un motto, potremmo dire: “né di stato e né privata, scuola pubblica autogestita”. Quella di Barbiana è stata una scuola che è andata oltre i concetti di democrazia tradizionali. La scuola per Don Milani era condurre il ragazzo sul “filo del rasoio”: a comprendere cioè che le verità non sono mai assolute. Vorrei riproporre qui un ricordo che ho di Don Milani, che è semplicemente il ricordo di un allievo, ma che ritengo molto significativo. Durante una lezione a Barbiana, leggendo un testo di Calamandrei sulla carta costituzionale, Don Milani all'improvviso disse: “ve lo immaginate ragazzi se la Costituzione l'avessero scritta solo i comunisti?”. Io, che venivo da una famiglia comunista, subito sobbalzai e pensai “eccolo, vien fuori il prete!”. Dopo due o tre minuti di silenzio - lui ci aveva abituato, fra l'altro, alle pause riflessive - disse: “e ve lo immaginate se l'avessero scritta solo i democristiani?”. Con quelle parole ha voluto dimostrare che noi abbiamo una carta costituzionale di valore perché ognuno ha dovuto rispettare l'altro. Democrazia non significa dittatura del 51%. La vera Democrazia è il rispetto della minoranza.


  1. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa , Libreria Editrice Fiorentina, pag.24

lunedì 18 novembre 2013

Potenza 1947. Gli spari sulla folla, nella relazione del Prefetto

di Agostino Giordano 

pubblicato su www.arrotinomagazine.it il 15/11/2013

Il 1947 fu un anno particolarmente turbolento per quanto riguarda le mobilitazioni contadine e la repressione, come spesso è accaduto nel nostro Paese, fu terribile. Accaddero episodi molto gravi che, purtroppo, non fanno parte della memoria collettiva e che è bene riportare in luce, anche per rendere un giusto tributo a coloro che hanno pagato con la vita e con il sangue.
Ad esempio, per citare uno di questi episodi, a Potenza una manifestazione contadina - che si svolse in Piazza Prefettura proprio nel 1947 - venne duramente repressa.
Così raccontava al Ministro dell’Interno il tragico episodio, l’allora Prefetto del capoluogo lucano Virgilio:
Il mattino del giorno 29 aprile oltre mille contadini provenienti dalla campagna circostante e di qualche comune viciniore armati di zappe, randelli e grossi bastoni, inscenarono in questa piazza Prefettura una violenta manifestazione, chiedendo l'abolizione totale dell'ammasso, la libera macinazione del grano e la soppressione del Consorzio Agrario.
Una Commissione di dimostranti venne subito ricevuta dal Prefetto, presenti anche il segretario della Camera Confederale del Lavoro, il Segretario della Federazione, ed esponenti del Partito Comunista, Socialista e Democristiano.
Mentre si svolgeva la discussione, la folla tumultuava impaziente ed aggressiva, accentuando l'atteggiamento minaccioso coll'agitare bastoni e randelli in alto, specie quando qualcuno della Commissione si affacciava alle finestre per esortare alla calma”.
Il Prefetto prosegue poi nel suo resoconto spiegando che tutti i tentativi di portare alla calma furono vani e, per giustificare la repressione attuata dalle forze dell'ordine, enfatizza decisamente i toni.
Infatti “la folla si accalcò sempre più verso il portone della Prefettura facendo viva e violenta pressione sullo sportello di entrata che veniva tenuto fermo con notevole sforzo dagli agenti dell'ordine, ivi di servizio”.
Ad un tratto da un dimostrante, salito su di un piedistallo delle colonne site ai lati del portone, con una lunga mazza furono rotti i vetri della lunetta che caddero in frantumi sugli agenti di servizio all'interno, e, mentre altri dimostranti tentavano la scalata all'ammezzato della Prefettura, la folla ebbe ragione del supremo sforzo comune compiuto dagli agenti per tenere fermo lo sportello d'entrata, ed un primo notevole gruppo di dimostranti irruppe nell'androne armato e deciso ad ogni estrema violenza, per cui la forza pubblica fu costretta a sparare in aria per impedire che quei forsennati avessero invaso e saccheggiato tutti gli uffici che hanno sede nel Palazzo del Governo”.
La polizia sparò quindi in aria, ma, misteriosamente e senza la precisa volontà di uccidere - come tradizione italiana vuole –
tra la folla, alcuni dimostranti furono raggiunti da colpi, in lontananza. Due di essi feriti gravemente decedettero poi all'ospedale”.
Infine il Prefetto rassicurava il Ministro sul fatto che erano “in corso indagini complesse per accertare le responsabilità della illegale e criminosa manifestazione, sconfessata dai partiti e dalle organizzazioni sindacali” e che erano state arrestate otto persone*.
Il risultato finale della repressione della forza pubblica “costretta a sparare in aria” fu di due morti e diversi feriti.
I due caduti furono Antonio Bastanzio di Senise (Pz), studente liceale di 19 anni (morto lo stesso giorno 29, a poche ore dagli incidenti) e Pietro Rosa di Tito (Pz), padre di due figli (ferito mortalmente all’addome, morì il giorno seguente, 30 aprile, all’ospedale San Carlo di Potenza**.
Due morti che la memoria collettiva, in particolare lucana, a prescindere dalle dinamiche che hanno generato questo tragico episodio e che successivamente proveremo ad analizzare in questa sede (valutando anche la situazione politica contestuale) potrebbe considerare come martiri che hanno sacrificato la loro giovane esistenza sull'altare del progresso civile e sociale del nostro Mezzogiorno e del nostro Paese.
 
*ASP, Prefettura – Atti di Gabinetto (1940 – 1956 ca.), 2° vers. / 2° el., cat. XII,busta 67: Relazioni mensili (1947-1950, Relazione mensile del Prefetto di Potenza scritta al Ministro dell'Interno il 6 maggio 1947 e riferita al mese di aprile. 

**Cfr. Azione Proletaria – Organo della Federazione Comunista, Anno IV, Numero Straordinario di Domenica 4 maggio 1947, in ASP, Prefettura – Inventario Atti di Gabinetto (1926 – 1956 ca.) 2° vers. / 2° el.,  Cat. XII B, busta 86,  fasc. 86: Esemplari d'obbligo.

L’altra Basilicata c’è già. Intervista a Maria Murante #lasceltagiusta


pubblicata su www.esseblog.it il 14/11/2013

Intervista a MARIA MURANTE, candidata della lista “Basilicata 2.0 – #lasceltagiusta”  per la carica di Presidente alle prossime elezioni regionali lucane (si vota il 17 e 18 novembre).

Vista dall’esterno, la competizione elettorale lucana risulta essere interessante, poiché, c’è una proposta politica , appunto “Basilicata 2.0 – #lasceltagiusta”, che è una proposta politica completamente alternativa al Partito Democratico e mette insieme un fronte abbastanza ampio di sinistra (Sel, Prc, associazioni, comitati, movimenti, etc..). A prescindere dalla specificità locale, quanto è importante, per te, che nel nostro Paese ci sia una sinistra alternativa, autonoma e indipendente?
In Basilicata, con un Pd che si è consolidato come “partito-regione”, e in cui si è accentrato quasi tutto il potere, nell’ambito di una coalizione di centro-sinistra in cui la sinistra ha subito una vera e propria conventio ad excludendum, ritengo che la nostra sia stata una scelta di autonomia e di autodeterminazione importante. Così come importante è l’esperimento laboratorio che, attraverso la coalizione BASILICATA2.0 – #lasceltagiusta prova a dare una risposta alle continue divisioni che troviamo tra le cause dell’attuale debolezza delle sinistre. Un laboratorioche prova a lasciare fuori le borie che ci hanno attraversato in questi anni, che si prefigge come obiettivo la riconnessione tra partiti, movimenti, cittadini e territori/comunità. Un laboratorioche prova, nel deserto che le sinistre tutte attraversano, a riaprire una partita che rimetta al centro della propria azione il tema della trasformazione e del cambiamento.

In questo periodo di “renzismo” galoppante, dove domina il tutto fumo e niente arrosto, quali sono per te pochi punti programmatici, cardine di una proposta politica di sinistra, attraverso i quali intervenire nell’immediato?
Al primo posto del nostro programma c’è il reddito minimo garantito, uno strumento utile e necessario per ridare dignità a quante e quanti non hanno un salario. Ad esso abbiamo aggiunto, quale paradigma di un programma possibile e necessario, la tutela del territorio e dell’ambiente declinata come messa in sicurezza e valorizzazione delle risorse naturalistiche, ma che parla anche di modello di sviluppo e di questione energetica, ricordandoci che parliamo di una regione in cui si estrae l’80% di petrolio nazionale. Altro punto fondamentale è sicuramente la formazione/istruzione, all’interno di un più ampio quadro di rilancio di politiche a sostegno della cultura.

Pensando alla Basilicata viene subito in mente Melfi…  
La centralità della proposta di reddito minimo garantito parla, più in generale, alla questione sociale e alla questione lavoro da tutti i punti di vista. Innanzitutto attraverso la sua garanzia, in una regione in cui assistiamo oramai quotidianamente ad una emorragia incontrollata di posti di lavoro, a partire dalla Fiat di Melfi e dal suo indotto – passando per finire al polo del salotto del materano – dove il lavoro fin qui esistente viene utilizzato come strumento di ricatto, attraverso un continuo livellamento verso il basso delle condizioni materiali di vita interne alle fabbriche. Quindi due i paradigmi su cui vi è l’urgenza a muoversi: da un lato il congelamento degli attuali livelli occupazionali, chiarendo che non un altro posto di lavoro può essere perso. A ciò urge un sostegno ai diritti e alle tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, per evitare che l’attuale crisi si trasformi, definitivamente, come ‘occasione di ristrutturazione’ del modello la quale assi solo attraverso il taglio dei diritti. Senza dubbio è importante rilanciare la Fiat, rispettando però i lavoratori e il tessuto dell’economia locale (in particolare, per quanto riguarda la Basilicata, penso al settore agroalimentare, ma anche al turismo e alla cultura) e considerando anche la riconversione ecologica, nonchè la mobilità sostenibile.

La Basilicata quindi può rappresentare un laboratorio? Anche semplicemente soltanto a livello locale, può continuare a vivere questa “miracolosa” unità?
Come chiarivo ampiamente nella risposta alla prima domanda, l’esperimento che stiamo realizzando in Basilicata è un laboratorio. E’ il tentativo di superare le fratture che negli anni passati ci hanno tanto penalizzato, guardando prima di tutto ai punti programmatici che ci contraddistinguono e che abbiamo in comune. La visione della realtà economica, sociale e politica è la medesima e noi, nel nostro piccolo, abbiamo risposto positivamente all’appello che Piero Bevilacqua lanciava dalla pagine del Il Manifesto invitando Sel ad aprirsi e a svolgere funzione di filtro unitario. C’è da dire anche che in Basilicata Sel e Rifondazione insieme hanno condiviso l’azione di governo all’interno del centro-sinistra e insieme hanno vissuto e denunciato la cooptazione di pezzi di destra nell’ambito del Pd e di quella coalizione, così come hanno condiviso la elaborazione della proposta di reddito minimo che, insieme ad oltre cinquemila firme, abbiamo consegnato al consiglio regionale uscente.
Un laboratorio – lo ripeto – che ha riunito i migliori pezzi della sinistra tradizionale lucana e li ha messi in simbiosi con delle energie nuove che si sono avvicinate alla politica attraverso l’associazionismo e i movimenti. Se si continua così, si può sicuramente percorrere una lunga strada.

lunedì 14 ottobre 2013

Che cento fiori sboccino!

Napoli, Roma, Bologna, Milano: quattro esperienze di cultura militante, in un’intervista a più voci

Che cento fiori sboccino! di Agostino Giordano

Articolo pubblicato su “nuova rivista letteraria” - semestrale di letteratura sociale (edizioni Alegre), n.7 – maggio 2013


Napoli – Ex Asilo Filangieri Occupato

L'Ex Asilo Filangieri è uno spazio occupato nella città di Napoli, che dal marzo dello scorso anno propone variegate e ricche attività culturali, attraverso una modalità di gestione autonoma, trasparente e aperta. Diverse iniziative e un calendario sempre ricco di eventi lo rendono un luogo vivo, frequentato da artisti, studenti, operatori e fruitori della sua offerta culturale.

Il vostro collettivo si chiama La Balena e vi definite lavoratori dello spettacolo e dell'immateriale. Quali sono le origini di queste scelte? 
Il collettivo La Balena nasce in ragione di una serie di istanze conflittuali legate alla categoria dei lavoratori dell'arte, dello spettacolo, della cultura, dell'immateriale, ossia quelle figure professionali che si sono viste progressivamente erodere tutele, garanzie, reddito, specialmente nel tempo della crisi capitalistica e della follia dell'austerità neoliberale. Naturalmente, siamo vicini a tutte le lavoratrici e i lavoratori che, come noi, subiscono processi di impoverimento e precarizzazione crescenti.
Al contempo, le istanze conflittuali del collettivo La Balena si sono mosse contro l'uso clientelare, dunque sostanzialmente privatistico, dei fondi pubblici in materia di arte e cultura e dei luoghi deputati alla fruizione e produzione delle espressioni artistiche, nonché contro la dismissione del patrimonio pubblico. L'occupazione dell'ex Asilo Filangieri (ex sede del Forum delle Culture, esempio di spreco di fondi pubblici), diventato presidio permanente dopo alcuni giorni, nasce dalla necessità di riaprire i luoghi della cultura e di combatterne clientelismo e malagestione.
Amiamo pensare che il collettivo La Balena, nei mesi, si sia gradualmente trasformato in una collettività più larga, che ha fatto di eterogeneità e apertura le assi portanti del suo agire quotidiano.  
Qual è la proposta culturale che rivolgete alla città? La cittadinanza che vive sul territorio che vi circonda sente l'esigenza di uno spazio come il vostro?
L'ex Asilo Filangieri, pur essendo collocato nel centro antico di Napoli, è stato di fatto sempre chiuso alla cittadinanza e al quartiere, sede di tanto sconosciuti quanto rari eventi. Il quartiere, peraltro, pur essendo centrale ha storicamente sofferto della mancanza di luoghi di fruizione libera e a prezzi popolari di arte e cultura. Da quando l'ex Asilo, in seguito all'occupazione iniziale, è stato autogestito da una comunità che ne ha realmente garantito l'apertura, il quartiere e il centro hanno trovato uno spazio dove potere fruire di una programmazione culturale accessibile, semi-gratuita e libera. La costruzione del teatro, della biblioteca, i cineforum per i bambini, le rassegne, i laboratori di teatro, danza, acrobazia, o di fotografia, le mostre, i reading, i seminari, le conferenze e, infine, una regolare assemblea di gestione che gode della costante partecipazione dei cittadini della intera regione, e i tavoli di lavoro sono diventati la grammatica quotidiana dell'ex Asilo, che pian piano si sta traducendo anche nella costruzione di un linguaggio comune con gli abitanti della zona. 
Spesso la politica istituzionale non riesce a relazionarsi con i soggetti, i collettivi e/o le associazioni che liberano gli spazi, rendendoli vivi e attivi attraverso pratiche autonome e autogestite. La risposta alla domanda di socialità, nella maggior parte dei casi, è la repressione senza mediazione. La città di Napoli è esente da questo modo ottuso e reazionario di confrontarsi con i soggetti sociali? Dai luoghi comuni che si sono creati attorno alla figura di De Magistris e della sua giunta che difende i beni comuni sembrerebbe di sì...
Ovviamente anche la città di Napoli non è esente di forze reazionarie. Molti politicanti, in seguito alla pratica d'autogestione diretta da parte dei cittadini dell'ex Asilo Filangieri si sono visti sottrarre un bacino clientelare notevole: da qui denunce, intimidazioni, sigilli - poi rimossi - al teatro. Abbiamo sempre risposto colpo su colpo, forti dell'appoggio del quartiere e della cittadinanza.
Rispetto alla questione giunta De Magistris, gli intenti iniziali andavano nella direzione del sostegno alle comunità in lotta per l'emersione e difesa dei beni comuni.  Ora ci risulta difficile credere che quegli intenti iniziali siano stati rispettati. 
Tuttavia, nel contesto poc'anzi delineato, la creazione a Napoli di un Assessorato ai beni comuni e alla democrazia partecipata ci è parsa un’occasione storica per erodere sovranità alle istituzioni costituite e redistribuirne ad istituzioni popolari nascenti. Ci è sembrato naturale, quindi, aprire un confronto pubblico con questa Giunta sul terreno del riconoscimento della gestione diretta (e dunque partecipata) dell’ex Asilo Filangieri. Ciò ha portato, nel maggio 2012, all’approvazione di una delibera che ha riconosciuto il ruolo sperimentale di una comunità di riferimento nella gestione dell’ex Asilo. 
Dalle pagine di questa rivista e dalle parole del suo fondatore Stefano Tassinari, più volte è emersa l'esigenza, per la Politica, di mettere al centro della propria iniziativa la Cultura. Allo stesso tempo si è rivelato indispensabile, per il mondo della cultura, assumere come prioritario l'impegno politico. In sintesi, la politica ha bisogno della cultura e la cultura, per non essere prevaricata e messa in second'ordine, ha bisogno della politica. Siete d'accordo?
Crediamo innanzitutto che la cultura, per quanto riguarda la gestione dei luoghi e delle risorse attraverso le quali si produce e fruisce arte e spettacolo, debba essere autonoma dalle classi dirigenti e dalle infiltrazioni politiche: ci sentiamo distanti tanto da novelli Mecenate quanto da cortigiani di vario genere. In questi anni la politica ha controllato  la cultura imponendo uomini vicini ai partiti, perciò fidati, in posti chiave della direzione artistica napoletana e campana. Non che alcuni di questi non avessero competenze: rifiutiamo il metodo. Non esiste una norma prescrittiva che stabilisca il rapporto ultimo tra cultura e politica (con la maiuscola): crediamo tuttavia che la cultura viva si ingaggi quotidianamente nella realtà, anche politica, di un paese. Crediamo che gli operatori della cultura, dello spettacolo, dell'immateriale debbano, oggi più che mai (augurandoci che non sarà necessario ripetere il sacrificio degli intellettuali napoletani del 1799 mai dimenticato da Benedetto Croce e Gerardo Marotta) mostrare coraggio civile  per riconquistare, o conquistare dal nulla, le condizioni per poter continuare a fare cultura, arte e spettacolo in modo libero e dignitoso. In questo senso assumiamo centrale l'impegno politico, ma rifiutiamo tentativi di sussunzione da parte di politici.  


Roma - Teatro Valle Occupato


Il Teatro Valle di Roma, uno storico presidio artistico e culturale risalente al 1727, è occupato dal giugno 2011. Fortunatamente è una realtà ormai consolidata, mediaticamente piuttosto conosciuta, che ha attirato l'attenzione di numerosi e celebri intellettuali, artisti e operatori culturali. Purtroppo però ha anche ricevuto particolari attenzioni dagli speculatori e dai cosiddetti “poteri forti” della capitale, e minacce di sgombero, con il rischio che qualcuno possa in qualche modo porre fine a questa esperienza. Per far proseguire le attività e per continuare a mantenere in vita il teatro, attraverso la pratica della gestione autonoma e aperta, il collettivo ha pensato di creare a una vera e propria Fondazione con l'aiuto di personalità note e attente alle dinamiche “partecipative” e che mettono a valore i “beni comuni” (tra i tanti, Stefano Rodotà e Ugo Mattei).


Perchè avete deciso di occupare il Teatro Valle? Qual è il contesto nel quale avete agito?

Abbiamo deciso di occupare il “Valle” a seguito di una serie di avvenimenti molto significativi in quell'anno che era appunto il 2011. Prima di tutto la finanziaria di Tremonti, che per l'ennesima volta tagliava i fondi pubblici per la cultura e la scuola. Addirittura c'è stato il rischio che venisse azzerato il Fondo Unico per lo Spettacolo, ma poi questa cosa è stata scongiurata, guarda caso, esattamente il giorno prima che si attuasse uno sciopero di tutte le realtà teatrali, artistiche e cinematografiche italiane (evento inedito per la storia italiana). La questione era molto nebulosa per quanto riguarda i diritti in caso di disoccupazione, per gli attori, i tecnici e i lavoratori dello spettacolo e ha inciso anche la decisione di voler chiudere l'Eti (Ente Teatrale Italiano, che aveva anche il Teatro Valle in gestione). La chiusura dell'ETI, prevista dalla finanziaria di Tremonti, implicava anche la chiusura del Teatro Valle, o comunque una forte incertezza sul suo futuro. A noi arrivavano diverse voci sul probabile destino del teatro, ma non sapevamo nulla di certo. Si prospettava l'ipotesi della sua chiusura per un anno (per poi dare la gestione in appalto ai privati, cosi come è avvenuto per il Quirino...), oppure quella di essere assorbiti dal Teatro di Roma, anche se per tale ipotesi non sembrava ci fossero i soldi necessari. Un’altra ipotesi, era quella secondo la quale il sindaco Alemanno aveva intenzione di affidare il Teatro a Luca Barbareschi... Finché c'è stato l'ETI, il teatro era sotto la gestione del ministero, essendo di proprietà del demanio; al momento della dismissione dell'ente, nell'estate del 2011, la gestione è passata al Comune di Roma: questa cosa ci smosse in maniera determinante. Tale passaggio avrebbe implicato un grosso rischio per le maestranze e le tecniche lavorative, manuali, teatrali (di uno dei teatri, fra l'altro, più antichi d'Italia e di Europa), che andrebbero difese come patrimonio universale dall'Unesco. La dismissione dell'ETI ha comportato che le persone che lavoravano al Valle da anni (in gran parte tecnici, portatori di un sapere incredibile) sono passati direttamente ad allestire mostre - nel migliore dei casi – o addirittura a fare i custodi dei musei. In pratica una totale mancanza di riconoscimento del valore dei saperi, propri del loro lavoro. Tutte queste cose ci hanno portato a reagire in maniera decisa, con un'azione forte di rottura, che nelle nostre prime intenzioni doveva durare tre giorni, e che voleva porre proprio la cultura al centro della nostra mobilitazione. Ormai non aveva più senso cercare il “dialogo”, gli altri lo avevano definitivamente interrotto. Noi che tenevamo in vita il teatro, dalla politica avevamo solo voci di corridoio sul destino del Valle e non conoscevamo quale fosse la realtà effettiva delle cose. C'è stata quindi una sorta di rigetto collettivo e abbiamo occupato il Valle senza pensare di aprire una trattativa, ma semplicemente per mettere una spina del fianco a coloro che con noi non avevano intenzione di dialogare. Tra l'altro ci fu una coincidenza incredibile: l’occupazione avvenne il giorno dopo la vittoria dei sì ai referendum contro la privatizzazione dell'acqua.

Come mai avete scelto la “fondazione” come strumento per far vivere il teatro occupato? Quali sono i vostri rapporti con la politica e le istituzioni?

A tal proposito conviene ripartire proprio dalla strana coincidenza che si è verificata. Infatti la vittoria referendaria pose la tematica dei beni comuni su un livello di massa e ciò ci spinse a invitare verso i primi di luglio Ugo Mattei, circa una settimana dopo l'occupazione, a parlarci appunto di beni comuni. Durante l'incontro pubblico, aperto alla cittadinanza, Mattei ragionò sul fatto di come il Teatro Valle fosse uno spazio storico bellissimo che, una volta chiuso, sarebbe presto diventato un luogo morto. Da lì cominciammo a ipotizzare un percorso di lungo periodo, anche sulle ali dell'entusiasmo generato dalla partecipazione del pubblico e degli addetti ai lavori. La vicinanza dell'opinione pubblica è stata talmente forte e inaspettata, che la nostra si è mostrata subito una risposta a un bisogno collettivo. Tra l'altro non bisogna dimenticare che ci trovavamo nel pieno del governo Berlusconi e in quel periodo lo scenario politico era completamente diverso da quello attuale: infatti l'esperienza del Teatro Valle rappresentò per tantissimi una vera e propria boccata di ossigeno. Ciò ci spinse anche a ragionare sul fatto che non potevamo andare avanti con una simbolica protesta di breve periodo, ma dovevamo dimostrare che i lavoratori dello spettacolo e i cittadini attivi protagonisti della nostra esperienza erano in grado di costruire e proporre qualcosa, prendendosi cura di un luogo, molto meglio della politica istituzionale che fino ad allora si era mostrata sorda e incapace. Considerare un bene comune anche un teatro storico è stato dunque per noi un assunto importante da cui rilanciare la nostra iniziativa complessiva. Cominciammo parallelamente anche a ragionare sul fatto che era importante per noi creare istituzioni che avessero alla base il principio della partecipazione della cittadinanza, soprattutto dal momento in cui avevamo deciso di non inseguire inutili tavoli di trattative o affannose vertenze. Tutto ciò in virtù del fatto che la cittadinanza quando è consapevole, è perfettamente in grado di autorganizzarsi. Tra l'altro, da questo punto di vista il Teatro Valle è diventato presto un laboratorio politico, nel senso più profondo, antico e greco del termine. Un luogo dove costruire nuove forme dello stare insieme, al di fuori delle logiche di competizione, ma di servizio per qualcosa di comune, dove esaltare e non schiacciare la proprio individualità. Questo stiamo tentando di sperimentare al Valle, privilegiando la costruzione di un pensiero collettivo piuttosto che far emergere la propria autorialità. Seppur utilizzando un termine abusato dal linguaggio di movimento, la fondazione, dunque, per noi rappresenta proprio una cosiddetta istituzione dal basso. E' un tentativo di far nascere da un atto illegale – l'occupazione - una spinta per l'innovazione delle istituzioni. La fondazione, se si prende come una scatola vuota da riempire, diventa un mezzo più che un fine e, fra gli altri, può essere uno strumento per eliminare definitivamente l'ingerenza della politica e dei partiti dalla gestione dei teatri: perché non ha alcuna logica il fatto che sia il politico di turno a nominare il direttore artistico di un teatro. La norma invece dovrebbe essere quella in vigore nel resto dei Paesi europei, dove un direttore artistico viene nominato in base al suo progetto e non a seconda dei suoi contatti politici.
D'altra parte è importante per noi uscire dalla logica binaria pubblico/privato, in base alla quale il pubblico è incapace di gestire i luoghi artistici e culturali, mentre il privato risulta virtuoso. Sappiamo bene invece che il privato si muove dentro le logiche capitalistiche del profitto, ma non si può pensare che un teatro, un bene storico come il Teatro Valle - dove ha debuttato Sei personaggi in cerca di autore, dove si sono esibiti Rossini e Mozart - possa sottostare alle logiche del mercato.
Una terza via c’è, e parte proprio dal ragionare sul bene comune e cioè sulla possibilità che una comunità di cittadini, di persone che amano il teatro Valle, che lo proteggono, se ne prendano cura e che in qualche modo siano il vero motore per la sua gestione. Partendo da questi presupposti abbiamo creato un comitato nell'estate del 2011, scritto uno statuto – con l’aiuto di Rodotà e da Mattei – che è stato pubblicato on line (e reso emendabile per via telematica) che, nei fatti, contiene ciò che era emerso durante le assemblee pubbliche. Appena lo statuto sarà definitivamente pronto andremo dal notaio per formalizzare la domanda per la fondazione. Per quanto riguarda il capitale sociale, per avere una più diffusa partecipazione abbiamo deciso che la quota minima d'iscrizione alla fondazione è di 10 euro, in modo che tutti possano diventarne soci fondatori. Nel giro di un anno abbiamo raggiunto 5.000 iscritti e 150.000 euro di fondi. Ora manca il passaggio più difficile, registrare tutto dal notaio e aspettare che la prefettura riconosca una fondazione nata da un'occupazione. Sarà un passaggio politico non facile, nel quale dovremo essere capaci di spiegare che quella per il Teatro Valle, è una battaglia politica in difesa dei beni comuni.

Spesso in Italia le direttive che hanno guidato le politiche culturali (avallate eccessivamente anche a sinistra) hanno privilegiato percorsi privatizzanti e che puntano a premiare la “commercializzazione” degli eventi. Più che la qualità, contano “i biglietti venduti”. Come si fa a scardinare questa degenerazione?

Innanzitutto bisogna precisare che la fondazione è un'istituzione che si muove nell'ambito del diritto privato, poiché non esiste in Italia una legislazione sul bene comune. Questo è un altro fronte sul quale noi ci stiamo muovendo, nel senso che a breve riapriremo proprio al Valle i lavori della “commissione Rodotà”, che vorremmo rendere itinerante, sperando che possa attraversare tutti i teatri e i luoghi di cultura occupati in questi ultimi anni (compresi Macao e l'ex Asilo Filangieri). L'idea è proprio quella di rimettere in vita una commissione nata a livello parlamentare durante il governo Prodi, che aveva anche redatto una legge delega in proposito, che non ha mai visto la luce. Questa è un'idea che ci ha suggerito lo stesso Rodotà e che potrebbe far avvicinare due mondi che in precedenza mai si sono parlati, le lotte che vivono ed elaborano le pratiche dei beni comuni e gli studiosi e i giuristi che ne sviluppano una prospettiva normativa, con l'obiettivo proprio di scardinare le degenerazioni “commerciali” e le logiche privatizzanti di cui parlavi. Per noi è fondamentale che si creino delle nuove concezioni del diritto, che in qualche modo contemplino il bene comune.
Tra l'altro la commissione Rodotà farà anche un ragionamento sulle economie, cioè su come sia possibile portare avanti l'attività di un teatro nella concretezza della realtà, in quanto non basta definirsi bene comune. Ad esempio, per quanto riguarda il teatro Valle, siamo convinti che siano importantissimi i finanziamenti pubblici, perché viene fornito un servizio per la comunità. Allo stesso tempo però sono preziose anche le entrate che arrivano dai biglietti venduti, dai borderò (elemento su cui si fondano i teatri privati), senza che questo secondo principio prevarichi il primo, altrimenti si finirebbe per privilegiare sempre i nomi di richiamo rispetto alla qualità. In più, noi, con la fondazione stiamo pensando a un tipo di azionariato diffuso, in cui i soci diventino parte attiva in tutti in sensi. L'obiettivo è quello di avere tre differenti fonti di entrate economiche: i fondi pubblici, i borderò e l'azionariato diffuso. Tra l'altro, ben vengano anche eventuali sostenitori facoltosi con l'intenzione di finanziare specifici progetti, un po' come avviene negli Stati Uniti. L'importante è che il prezzo del biglietto non diventi elemento di esclusione. In tal senso abbiamo pensato a delle “quote di complicità”, cioè a dei prezzi per spettacolo “consigliati” (in base alle spese sostenute, facendo sì che tutti i lavoratori coinvolti vengano retribuiti, dagli attori ai tecnici), che ognuno possa pagare a seconda delle proprie possibilità e disponibilità.

E' difficile mettere insieme e dalla stessa parte della “barricata” operatori (tecnici, attori, registi, etc...) e fruitori della cultura? L'esperienza del Teatro Valle sembrerebbe dimostrare che si può fare...

Assolutamente sì, anche se è difficile si può fare. E' fondamentale far uscire il teatro dalla dimensione della marginalità ed è fondamentale far vivere tutta la comunità che vi gira attorno e se ne prende cura. Altrimenti il teatro diventa un inutile esercizio intellettuale, come se ne vedono tanti nel nostro Paese.
Tra l'altro al Teatro Valle lavoriamo molto sulla commistione dei generi e cerchiamo di unire il discorso artistico a quello politico. Muovendoci su queste coordinate, ci piace fare a volte anche degli accostamenti piuttosto azzardati, ad esempio proporre Gianni Morandi o Jovanotti e contemporaneamente l'artista tedesco sconosciuto ai più o Peter Brook. Oppure, ad esempio, ci piace il fatto che all'interno del teatro, mentre sul palco si tiene un laboratorio di danza a sipario chiuso, in platea si possa svolgere contemporaneamente un'assemblea sulla finanza...
La capacità di tenere insieme gusti e generi differenti, implica che il Teatro Valle sia attraversato da generazioni e provenienze socio-culturali diverse e ciò ci aiuta a tenere tutto insieme.
Ci piace pensare che il nostro teatro, situato nel centro della capitale (di fianco al Senato), possa idealmente abbracciare tutta la città e da noi possano sentirsi a casa anche i ragazzi delle periferie. Il nostro modo di concepire e agire il teatro va proprio nella direzione di eliminare lo scollamento che spesso c'è tra gli addetti ai lavori e il pubblico, che spesso rende i teatri luoghi marginali nella vita di una comunità.

La vostra esperienza è stata presa come modello da altri collettivi che, in altre città tentano di replicarlo, adattandolo ovviamente ai relativi contesti e alle differenti specificità. Pensate si possa creare una mobilitazione complessiva e diffusa nel nostro Paese che veda la rivendicazione della cultura come “bene comune”?


Pensando alla gestione delle politiche culturali negli ultimi venti anni il pessimismo prevale e, guardando alla situazione complessiva del Paese, è molto difficile che nel futuro immediato la cultura possa essere intesa come bene comune anche dai non addetti ai lavori. Considerando invece l'esperienza del Teatro Valle l'ottimismo ovviamente prevale, anche se è evidente che il lavoro da fare è ancora tanto e molto duro. Dalla politica la cultura è vista prevalentemente come un accessorio e non come un valore assoluto, i politici la ignorano o la utilizzano soltanto per propri fini. Tra l'altro, al di là di qualche vago accenno, non sembra che alle ultime elezioni politiche le forze in campo abbiano avanzato proposte credibili riguardo alla cultura, che spesso viene utilizzata come specchietto per le allodole al fine di coprire operazioni finanziarie di dubbia trasparenza (come nel caso della costruzione del nuovo palazzo del cinema al Lido di Venezia, attraverso la quale si è realizzata una vera e propria speculazione edilizia con svendita di patrimonio pubblico). Insomma, la situazione italiana è sotto gli occhi di tutti: la cultura, che dovrebbe essere uno dei pilastri dell'economia e della coesione sociale nazionale, non è certo considerata una priorità. Per far si che la cultura venga da tutti percepita come bene comune sarà necessario un impegno enorme; per questo i luoghi come il nostro devono essere aperti e devono coinvolgere la cittadinanza in maniera sempre più ampia, per far sì che ognuno possa riscoprire il piacere e la bellezza dell’arte. Sino ad oggi, in Italia si sono avute mobilitazioni “a tasselli”, per tematiche o geograficamente isolate. E’ importante che questi tasselli comunichino tra loro, che le esperienze si moltiplichino e formino un mosaico completo, nella speranza di una svolta complessiva che metta la cultura, finalmente considerata bene comune, al centro dell'iniziativa politica e sociale del nostro Paese.


Bologna – Bartleby
Bartleby è una esperienza che a Bologna l’amministrazione comunale e l’Università più volte hanno contrastato e tentato di mettere a tacere. Nasce nel marzo del 2009 in uno spazio occupato (presso locali universitari inutilizzati) che viene più volte sgomberato e trova una nuova sede (sempre all’interno di locali vuoti dell’ateneo bolognese) dal marzo del 2010 in via San Petronio Vecchio. E’ un luogo molto frequentato da studenti, intellettuali, scrittori e ricercatori di fama anche internazionale, ricco di eventi e iniziative che però, inspiegabilmente, è mal tollerato dalle istituzioni. Le immagini dell’ultimo sgombero, con il portone d’ingresso murato, hanno fatto il giro della rete e sollevato l’indignazione di tanti.
Il vostro collettivo si chiama "Bartleby" e già dal nome è evidente la centralità che date alla cultura nella vostra iniziativa politica. Come mai “Bartleby” e perché proprio la cultura al centro? 
Bartleby è il nome del protagonista di uno dei più bei racconti di sempre. Un racconto che si è prestato a molteplici interpretazioni, spesso contrastanti. C'è chi vi ha letto la storia di una pura sottrazione, di una sconfitta solitaria. Altri, come noi, pensano che quel “I would prefer not to” sia il primo passo per il dispiegarsi di una potenza creativa. Siamo nati sul solco di questa narrazione, convinti che le storie non siano statiche ma vadano riscritte ogni giorno. Nati in seno al movimento dell'Onda nel 2009, dall'università abbiamo avviato un ragionamento radicale di messa in discussione dei meccanismi di trasmissione del sapere. Questo ci ha portati a incontrare molte persone: artisti, musicisti del teatro comunale e del conservatorio, ragazzi dell'accademia, e una città intera. La cultura come campo di battaglia, in una città con una delle più antiche università del mondo, ci è sembrata una sfida da raccogliere. Cultura intesa come azione, e presa di parola, non come orpello, come decorazione o come spazio neutro. E nemmeno come impresa. Cultura come terreno di incontro e formazione critica.
Bologna ha una storia complessa che vive dell’intreccio (fatto di confronti e scontri) tra cittadini residenti e fuori-sede. Gli studenti sono una componente fondamentale di questa città, che spesso vive ai margini delle scelte culturali e politiche che si operano. Come si inserisce la vostra proposta culturale in questo contesto? I riscontri sono positivi?
Da sempre Bologna vive scissa in due città. I residenti da un lato e le decine di migliaia di studenti fuorisede dall'altro. Spesso i primi vivono alle spalle dei secondi. Lo studente è mediamente percepito come quello che arriva, resta qualche anno e se ne va. Durante questo periodo paga affitti altissimi per case spesso fatiscenti. Consuma e viene salassato da tasse universitarie sempre più alte. I problemi si hanno quando gli studenti divengono soggetti attivi e rivendicano i propri spazi espressivi, i propri tempi. Questo una fetta della città non vuole accettarlo. E qui si innesca lo scontro. Come esperienza politica ci siamo sempre posti a cavallo tra università e città, scegliendo un luogo centrale e vicino alle facoltà proprio per rompere questa dicotomia. E i risultati si sono visti nel tempo. C'è una parte viva di questa città, fatta di studenti ma non solo. É chi pretende di governare Bologna che si ostina a innalzare muri.
Le amministrazioni locali e l’Università più volte hanno dimostrato, in particolar modo a Bologna, di non saper accogliere le istanze di socialità. I percorsi autogestiti di riappropriazione degli spazi, che come nel vostro caso vengono “restituiti alla città” attraverso una proposta culturale altamente qualitativa, vengono sgomberati e l’azione repressiva sembra essere l’unica risposta di cui le Istituzioni sono capaci. Quali sono secondo voi le modalità più efficaci per contrastare questa modus operandi ottuso e autoreferenziale?
A Bologna si usa l'espressione “tenere botta”, che indica la capacità di resistere ed assorbire una serie di duri colpi. La difficoltà maggiore che questi attacchi pongono è la solitudine: ci si sente stretti in un angolo e si ha l'impressione che l'unico modo per reagire sia farlo da soli. “Tenere botta” è l'unica strategia di salvezza in questa epoca di crisi: vuol dire guardarsi attorno, capire chi sono i tuoi simili, costruire una risposta con loro e nel frattempo far capire a chiunque che l'attacco che in un preciso istante viene rivolto a te è in realtà rivolto a tutti, che lo sgombero di uno spazio autogestito in città va a braccetto con delle politiche cittadine di centralizzazione del potere nelle mani di pochi. E ci si può scommettere che questi pochi hanno il portafoglio gonfio e in continua espansione.
Spesso si parla di crisi della politica e di fallimento del sistema dei partiti. Al di là di tutto è evidente il dilagare del cosiddetto “populismo” attraverso differenti forme. La cultura è uno strumento utile per ridare credibilità alla politica? Credete che la politica debba dare delle risposte o per voi è indifferente?


Cultura” oggi è soprattutto industria culturale, è spettacolarizzazione, festival giganteschi, operazioni di marketing, istituzioni parassitarie, università baronale, case editrici che impongono i propri gusti, grandi librerie che soffocano le piccole. Questa “cultura” ha il plauso delle istituzioni. Si tratta di una cultura neutralizzata, che nasconde il fatto che in questi contesti c'è chi subisce il ricatto della precarietà, chi per arrivare a fare ciò in cui crede deve ipotecare la propria esistenza, senza avere la possibilità di decidere. Il fatto che la cultura sia considerata una merce consente che ci sia una forte disciplina sui saperi, una disciplina sulla base della quale si stabilisce chi si salva e chi no. E a decidere non è certo chi sta in basso. Si tratta di un modello che è parte integrante della crisi che viviamo, ma di questa analisi non c'è segno, né nei parlamenti vecchi né in quello nuovo, perché parlare di “cultura” in modo generico fa comodo a molti, elimina i problemi. La politica istituzionale, quando se n'è occupata ha sempre fatto danni, seguendo il gioco del mercato. Una prima risposta potrebbe essere quella di rifiutare proprio questa logica. Ma facciamo prima a fare la rivoluzione. Il ché è tutto dire.


Milano - Macao

Macao, centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca, ha sede a Milano, in viale Molise 68. E’ uno spazio artistico e culturale autogestito che ha attirato l’attenzione di tanti quando, nel maggio dello scorso anno ha subito un assurdo sgombero, ricevendo al contempo una fortissima solidarietà. Il collettivo aveva occupato i locali inutilizzati della Torre Galfa, un edificio di oltre cento metri d’altezza situato alle spalle del “Pirellone”. La loro esperienza è molto emblematica di quanto sia importante e sentita l’esigenza di luoghi pubblici gestiti dai “lavoratori dell’arte”, agevolmente fruibili dalla cittadinanza.

Da dove nasce Macao e l’esigenza di creare a Milano uno spazio, autogestito e autonomo, di operatori artistici e culturali?

Macao nasce come momento di critica del sistema lavorativo, nell'ambito dell'arte, della cultura e della ricerca da parte di un gruppo che per più di un anno ha discusso, teorizzato e praticato sulla precarietà del lavoro culturale. Quel piccolo gruppo é stato grimaldello di un meccanismo di coinvolgimento sociale, sfociato in un movimento partecipativo di dimensioni inaspettate, che nel momento dell'ingresso in torre Galfa si é trasformato in quello che é ora Macao, una moltitudine di individui che sperimentano nuove forme di cittadinanza e produzione culturale/artistica. In una città come Milano, dove gran parte della produzione culturale é finalizzata al commercio industriale, si è sentita la necessità di esprimere le potenzialità creative in un ambito altro, non finalizzato al capitale, ma alla realizzazione, in un terreno comune, non controllato da istituzioni, dei progetti da donare alla cittadinanza attraverso modalità che presuppongono rapporti personali basati sul rispetto e la condivisione.

C'è in città una risposta positiva alla vostra proposta culturale?

La novità di Macao ha trovato risposte positive e propositive da parte della cittadinanza, la quale, sentendosi chiamata in prima persona a rimettere in discussione le modalità di gestione degli spazi urbani, ma anche di poter sperimentare nuovi sistemi di produzione, ha partecipato, soprattutto durante l'occupazione di Torre Galfa, in maniera attiva e propositiva. L'immaginario costruito nella "torre" ha convogliato le energie della parte di cittadinanza "attiva" che fino ad allora non aveva trovato il modo di investire il proprio tempo e le proprie energie in qualcosa di genuino in cui poter credere. Una moltitudine di energie spontaneamente convogliate in un progetto di costruzione di un "noi" condiviso, attraverso il lavoro fisico e mentale, é stata la presa di posizione forte da parte di una città che voleva cambiare.

Milano, da circa due anni ormai, è amministrata da una giunta considerata “illuminata” e guidata da Giuliano Pisapia, protagonista di un’importante mobilitazione civica e politica che, tra le varie istanze e i diversi propositi, aveva come prioritarie le politiche per la cultura e il suo sostegno. Giudicate che si stia procedendo nella giusta direzione? Il vostro rapporto con l’amministrazione comunale è proficuo oppure inappropriato, come lo sgombero che avete subito sembrerebbe indicare?

Aspettarsi un immediato cambiamento radicale di fare politica, in una città gestita da vent'anni dalle destre sarebbe più che utopistico. La giunta Pisapia ha provato a capire il processo iniziato in torre Galfa, cercando di attraversarlo con un intervento dell'allora neo-sindaco, in quale, anziché inserirsi come parte integrante di un’assemblea ha creato scompiglio come agente esterno, proponendo un percorso "legalitario" ai "macachi" di allora, chiudendo gli occhi davanti all'evidenza che più di tremila persone, ogni giorno, attraversassero uno spazio occupato, quindi illegale. Il Comune non è riuscito ad accettare il processo che stava nascendo come indipendente, e ha cercando di portarlo dentro il proprio recinto e controllo; anziché limitarsi ad ascoltare le nostre istanze ha provato a sussumere le nostre energie, come, tra le tante, la proposta della gestione dell'OCA, sotto la direzione artistica di Dario Fo è stata. In sostanza è stata ignorata la legittimità di un gesto quale la riappropriazione di spazi abbandonati.
Il lavoro della giunta e quello che abbiamo messo in pratica noi, anche se in entrambi rientra la parola cultura, si muovono su due piani, se non due universi, completamente distanti. L’intervento istituzionale poggia le proprie basi su una democrazia di tipo rappresentativo che non può muoversi più di tanto al di fuori del seminato e che comunque non è in grado di riformare la gestione della città in base alle necessità dei cittadini. Alcuni passi avanti sono stati fatti, ma le nostre richieste, come quelle di altri spazi autogestiti di Milano, per la loro radicalità e forza visionaria (non irrazionalità), risultano quasi esclusivamente come delle sfide alla giunta e dunque difficilmente prese in considerazione. Il documento di legittimazione della cittadinanza attiva uscito da Macao a fine luglio 2012, ha come centro quello della partecipazione diffusa nella gestione degli spazi pubblici, soprattutto quelli abbandonati, senza dover rientrare in modalità burocratizzate, ad esempio l’associazione: noi crediamo che i cittadini debbano attivamente, e senza il tramite delle gerarchie istituzionali, poter decidere riguardo alla gestione e alla destinazione degli spazi, al solo fine di veder migliorata la vita della comunità. La domanda centrale che M^C^O pone alle istituzioni è: perché il sistema vigente legittima e legalizza la speculazione e la corruzione e invece definisce illegale la volontà dei cittadini di autogestire spazi abbandonati nella massima trasparenza?

In generale, come considerate l’intreccio tra politica e cultura? Pensate che le forze e le soggettività politiche (collettivi, associazioni, centri sociali, partiti, etc...) che incrociano i vostri percorsi conoscano e siano in grado di interpretare le problematiche legate al mondo della cultura?

Politica e cultura in questo paese difficilmente vanno a braccetto, come dimostra l'atteggiamento dei governi che si sono alternati negli ultimi vent’ anni, nonostante l'evidenza che investire in cultura porterebbe solo vantaggi al paese, producendo
qualcosa come il 5% del PIL, tesi sostenuta da il Sole 24 Ore. (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-03-27/larte-produce-investire-lusso-064106_PRN.shtml). In Italia si tende a strumentalizzare l’argomento. Lo svuotamento del significato e dell'importanza del termine cultura, con balle del tipo "con la cultura non si mangia", ha fatto sì che le istanze di movimenti che rivendicano modalità "altre" di produzione culturale, non riuscissero a venir fuori in maniera forte e incisiva. Il nostro compito attuale, parallelo al lavoro che mettiamo in pratica tutti i giorni, è quello di riportare al centro del discorso, delle soggettività politiche e non solo, l'importanza di questo tipo di lotte per il nostro paese. Siamo dell'idea che con la cultura si possa mangiare eccome, e che questa sia motore per costruire una società più consapevole e dunque salda. Quanti più cittadini leggono, suonano, dipingono, visitano musei, scrivono, ascoltano musica, tanto più alta sarà la ricchezza culturale di una comunità. Siamo altresì convinti che quanti più strumenti culturali una persona possiede, tanto più difficile sarà il controllo della sua mente da parte di un qualsiasi tipo di potere.


venerdì 4 ottobre 2013

Appello per l’apertura di un canale umanitario per il diritto d’asilo europeo

Appello per l’apertura di un canale umanitario per il diritto d’asilo europeo

Ai Ministri della Repubblica, ai presidenti delle Camere, alle istituzioni europee, alle organizzazioni internazionali

Firmate sul sito:http://www.meltingpot.org
A cadenza ormai quotidiana la cronaca racconta la tragedia che continua a consumarsi nel mezzo del confine blu: il Mar Mediterraneo.
Proprio in queste ore arriva la notizia di centinaia di cadaveri raccolti in mare, ragazzi, donne e bambini rovesciati in acqua dopo l’incendio scoppiato a bordo di un barcone diretto verso l’Europa.
Si tratta di richiedenti asilo, donne e uomini in fuga da guerra e persecuzioni, così come gli altri inghiottiti da mare nel corso di questi decenni: oltre 20.000.
Lo spettacolo della frontiera Sud ci ha abituato a guardare l’incessante susseguirsi di queste tragedie con gli occhi di chi, impotente, può solo sperare che ogni naufragio sia l’ultimo. Come se non vi fosse altro modo di guardare a chi fugge dalla guerra che con gli occhi di chi attende l’approdo di una barca, a volte per soccorrerla, altre per respingerla, altre ancora per recuperarne il relitto.
Per questo le lacrime e le parole dell’Europa che piange i morti del confine faticano a non suonare come retoriche.
Perché l’Europa capace di proiettare la sua sovranità fin all’interno del continente africano per esternalizzare le frontiere, finanziare centri di detenzione, pattugliare e respingere, ha invece il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far si che chi fugge dalla morte per raggiungere l’Europa, non trovi la morte nel suo cammino
Si tratta invece oggi di "esternalizzare" i diritti. Di mettere la bando la legge Bossi-Fini e aprire invece, a livello europeo, un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo direttamente alle istituzioni europee in Libia, in Egitto, in Siria o lì dove è necessario (presso i consolati o altri uffici) senza doversi imbarcare alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei naufragi.
Nessun appalto dei diritti, nessuna sollevazione di responsabilità ai governi europei, piuttosto la necessità che l’Europa si faccia veramente carico di evitare queste morti costruendo una presenza diretta e non terza che, fin dall’interno dei confini africani, possa raccogliere le richieste di chi chiede protezione per poi accogliere sul suolo europeo chi fugge ed esaminare qui la sua domanda.
Alle Istituzioni italiane, ai Presidenti delle Camere, ai Ministri della Repubblica, chiediamo di farsi immediatamente carico di questa richiesta.
Alle Istituzioni europee di mettersi immediatamente al lavoro per rendere operativo un canale umanitario verso l’Europa.
Alle Associazioni tutte, alle organizzazioni umanitarie, ai collettivi ed ai comitati, rivolgiamo l’invito di mobilitarsi in queste prossime ore ed in futuro per affermare
IL DIRITTO D’ASILO EUROPEO

giovedì 11 luglio 2013

Il movimento partigiano di Lauria (1944-1945): ritrovato il verbale costitutivo ufficiale del Comitato locale di Liberazione Nazionale


di Agostino Giordano
Articolo pubblicato su www.arrotinomagazine.it  l'11/07/2013
Ci sono date che passano alla storia con estrema facilità, soprattutto per la dirompenza degli eventi che le hanno contrassegnate, in positivo o in negativo.
  Ci sono, invece, altre date che fanno fatica a entrare nella storia, sia perché gli eventi che le hanno caratterizzate hanno avuto poco clamore, o perché qualcuno ha voluto cancellarle dalla memoria collettiva o semplicemente perché, a causa dell'indifferenza generale, sono finite nel dimenticatoio.
Nei giorni scorsi ho recuperato alcuni documenti fotocopiati presso l'Archivio di Stato di Potenza e trovati durante una mia ricerca sulle lotte contadine e la riforma agraria in Basilicata, specificatamente nella provincia potentina.
Mi sono ritrovato fra le mani la copia di un documento che, come tanti, rischia di finire nel dimenticatoio per svariati motivi e che, invece, forse varrebbe la pena far conoscere e divulgare.
Uno di quei documenti che, come tanti, si spera possa suscitare l'interesse di qualcuno (anche per proseguire la ricerca sulla storia e sui protagonisti locali del periodo in cui è collocato) e che, in qualche modo, possa mettere un piccolo mattone nella costruzione, sempre in progress, di quell'importante edificio pubblico immaginario che è la memoria collettiva di una comunità, di una città, di una provincia e di una regione. Soprattutto per arricchire quella “micro-storia” locale che ha dignità di essere ricordata, al pari della grande storia nazionale, fatta di grandi nomi e grandi date.
Il documento a cui sto facendo riferimento è infatti il verbale che sancì la costituzione ufficiale del Comitato di Liberazione Nazionale di Lauria, datato 25 marzo 1945 [Archivio di Stato di Potenza, Prefettura – Atti di Gabinetto (1926 – 1956), II° versamento – II° elenco, Categoria XXI, busta 112].
In realtà, come risulta in questo stesso verbale, a Lauria era già operativo un Comitato di Liberazione Nazionale quantomeno dal novembre 1944, ma non fu ufficialmente riconosciuto da tutte le forze antifasciste presenti sul territorio (Partito d'Azione e Partito Democratico del Lavoroin primis).
Addirittura, si denuncia che il precedente “pseudo Comitato” fu costituito, non solo escludendo i rappresentanti del Partito D'Azione, ma anche “senza la partecipazione del Partito Democratico del Lavoro” che, sempre in base alle parole contenute in questo importante verbale, all'epoca vantava “il maggior numero di iscritti”.
In pratica, nel 1945 a Lauria il partito che contava più iscritti era quello che aveva come rappresentante nazionale e fondatore, fra gli altri, Ivanoe Bonomi e che, nelle successive elezioni del 2 giugno 1946 ottenne circa lo 0,2% (eleggendo 9 deputati all'interno della coalizione “Unione Democratica Nazionale”).
Interessante sarebbe indagare i motivi della spaccatura del fronte dei partiti democratici e antifascisti laurioti, che sembrerebbe collocare da una parte Partito Comunista, Partito D'Azione, Partito Liberale e Partito democratico del Lavoro, dall'altra il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana (seppur con diverse motivazioni e articolazioni).
Infatti la riunione, tenutasi nella sede del Partito Democratico del Lavoro di Lauria superiore, servì a sancire la nascita ufficiale del Comitato di Liberazione Nazionale e, non a caso il verbale fu sottoscritto soltanto dai rappresentanti di quattro partiti: Lanziani Gaetano e Rossi Domenico (eletto Presidente del Comitato) per il Partito Comunista. Mandarino Antonio e Bochicchio Canio (eletto Segretario del Comitato) per il Partito d'Azione. Petrocelli Giuseppe e Reale Vittorio per il Partito Liberale. Calabrese Matteo e Cono Priante per il Partito Democratico del Lavoro.
Fra l'altro, questi partiti chiedevano la nomina di un commissario prefettizio per il comune di Lauria, cioè che a svolgere le funzioni di Sindaco fosse una “figura estranea all'ambiente locale” che avesse potuto “svolgere la sua funzione con assoluta indipendenza, giustizia e imparzialità, a vantaggio dell'interesse generale del paese”.
Il Cln di Lauria, infatti, considerava da annullare la proposta fatta dallo “pseudo Comitato” che aveva portato alla nomina di sindaco il sig. Carlo Jelpo, pare particolarmente inviso al Rione inferiore, a causa dei suoi “precedenti politici”.
La storia spesso è fatta di contrapposizioni e divisioni che, a volte, lasciano tracce e segni per lunghi periodi. Indagarle, comprenderle e farle diventare memoria, oltre a impreziosire il patrimonio culturale di una comunità, potrebbero anche essere utili per capire l'attualità e per migliorare  il presente di una specifica società civile.
Nel frattempo, tributare un piccolo omaggio ai sottoscrittori di questo verbale, sarebbe cosa buona e giusta da parte della città di Lauria che, come tutti gli enti locali italiani, deve saldamente rimanere ancorata ai valori dell'antifascismo e della Costituzione.